Dalla raccolta "L'etica dell'acqua" di Giuseppe Manitta (Avagliano ed., 2021) una "lettera aperta simbolico-onirica all'autore" di Sergio Daniele Donati

 


Anche la polvere lotta contro l'estinzione,
cerca il suo profilo
per non annegare tra le pozzanghere.
Il dubbio è sempre
se capire le forme o catturarle.
Lo schermo, invece, contempla
la metamorfosi dell'io
e il vangelo della moltiplicazione
smarrisce l'orientamento
nella calca dei profili.
È possibile non avere sosta,
espandere il limite oltre la cancellazione,
farsi altro, appoggiare la mano su "invio"
e crearsi. Facce senza corpo,
distrazioni di scena.
Siamo un'eresia fatta di rassegnazione.

Così tu, Giuseppe Manitta, nella tua raccolta "L'etica dell'acqua" (Avagliano ed., 2021). 
E io, che lotto sempre tra senso e suono, e di queste «esse allitteranti» ho fatto una veste sin troppo comoda per definire me stesso, mi fermo e, un poco mi spauro.
Perchè questo tuo voler dire del nostro muoverci tra maschere, del nostro indossare i volti che ricoprono la nostra assenza di corpo, risuona denso nei miei midolli. 
E mi dona un brivido lungo la colonna vedere che la tua parola è stata capace di quel detto che muto scava tunnel sotto la mia epidermide. 
Ci si crea facendosi altro da sé, ammettendo poi in sé l'eresia della resa, la cancellazione della traccia di sacro che celiamo dietro i sorrisi di un'esistenza vacua. 
Così tu, Giuseppe Manitta, e io ascolto ciò che è oltre le tue parole, negli interstizi vuoti tra le lettere, la fatica e la gioia del tuo movimento per arrivare a dire.
Così io posso finalmente tacere e assorbire il passo altrui, il tuo, tra le falangi delle dita, che schiacciano "invio" sulla mia tastiera, per poter finalmente non essere più, se non al tuo ascolto.

La parola, dicono, ritorna il tempo.
È una somma
che ha il risultato della sottrazione

Le stelle, dicono, sono gli occhi di Dio.
È la somma 
che ha il risultato della sottrazione.

Eppure allo sguardo morto delle stelle io mi sottraggo. Mi parlano troppo della nostra testimonianza e di una memoria che cede il passo al grigio avanzare di un felice oblio. 
Del firmamento non so sostenere la beffa, il suo manifestarci luce morta da millenni e il suo far appello alla nostra brama di ordine per tracciare linee immaginarie che ci orientino. 
Io mi sottraggo, Giuseppe Manitta, e divento così la differenza che porta traccia della somma.
Là, tra i cespugli, una cantilena di tratti matematici conta lenta ogni nostro eppure...e diveniamo numeri periodici per noi stessi.

Avevano detto che il crinale avrebbe retto al buio
con una geometria di steli incapaci a germogliare.
Ma il tempo cerca un'uscita.
Che il tempo e il buio si incontrino
è un rischio, però. La terra non potrebbe reggere
e bisognerebbe trovare lo spazio della rassegnazione.
Eppure restiamo seduti qui – un qualsiasi dove –
a compilare il dizionario delle ore.

Sullo stesso crinale, Giuseppe Manitta, sta una pietra d'ossidiana. 
Un buco nero-lava che assorbe il mondo dei simboli e lo espelle chissà in quale galassia interiore. 
Il tempo è l'uscita e, se incontra quell'oscurità, è per parlare dell'origine, del prima del creato e dello spazio.
Ho computato milioni di volte anche io quel dizionario, ma al suo centro c'è sempre una pagina quasi totalmente bianca con scritto, al centro, un solo nome.
È allora che chino lo sguardo a terra...e rincomincio da capo.
Sergio Daniele Donati

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N.d.R. Giuseppe Manitta è stato già graditissimo ospite de «Le parole di Fedro» con alcuni suoi inediti, che potrete leggere cliccando sul link che precede. 
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