(Redazione) - Fatuari - 01 - Il nome è la fine; il nome è il principio.

 
Diego Riccobene

L’Enūma eliš racconta che, successivamente alla creazione del mondo, Marduk dovette placare l’ira di Tiāmat, intenzionata a vendicare la morte del dio primigenio suo compagno Apsū, l’abisso, il custode dei segreti. L’avvicendamento tra le due forze vide la necessità che entrambe si armassero di tutto punto per sostenere il tremendum dello scontro, la prima in particolare: “Tra le sua labbra egli teneva stretto un incantesimo, / mentre tra le sue mani stringeva una pianta per contrastare il veleno di Tiāmat”1.
La pianta – un talismano; e ancor di più, la parola stretta in bocca, quella che dovrà decretare il potere sull’altro, soggiogandone le volontà. Una tenzone verbosa è quanto i due ancestrali mettono in atto, da subito, per primeggiare l’uno sull’altro: “Tiāmat lancia il suo incantesimo, senza neanche voltare la testa / tra le sue labbra stringe falsità e menzogna”2. Solo successivamente si verifica il ferace corpo a corpo materico, che vedrà la cruenta dipartita del drago (sempre un drago deve perire).
L’origine divina della parola, ci ricorda Anita Seppilli in quell’eldorado di Poesia e magia3, è scandita dal mito per identificare – in maniera esatta, beninteso – la natura delle forze superiori e per agire su di esse, come la pratica dei magi che anelano alla comunione con gli elementi, nominandoli. Non stupiamoci, pertanto, se un incantesimo ove il nome della persona da cui si voglia ottenere un effetto detrimentoso o meno sarà invalidato quando mancante del lessema esatto che connoti il destinatario, e che si trovi possibilmente in posizione rematica, a qualificarsi come portatore del maggior dinamismo comunicazionale possibile. Fin dall’età antica inoltre era uso appendere tavolette incise al collo di una persona malata per stornare da colei i nefasti effetti della febbre o della lebbra, o per impetrare sordidi vincoli erotici nei confronti di amanti riluttanti o che avessero compiuto torti imperdonabili. Le tavolette, per garantire efficacia, avrebbero dovuto recare parole, formule, nominazioni marcate.
Agrippa prescrive che oggetti o materiali di siffatta natura (non si entra qui nella questione di cosa fabbricare e come, non è questo di certo un grimorio – l’altissimo me ne scampi! – basterà pertanto a un lettore curioso sfogliare opere a piacimento tratte dalla ciclopica mole di pubblicazioni pervenuteci per tradizione orientale, ellenistica, europea): bisogna però non dimenticarsi di bagnare questi mediatori di forze favorevoli4 (astrali in primo luogo; ovvero ctonie laddove il rituale richieda una più acuta forza attrattiva sulla natura ascosa del proprio io iniziatico) e spargerne invocazioni e versi. Versi? Senza dubbio, citando Tibullo su tutti: carmen significa canto tanto quanto formula magica – Num te carminibus, num te pallentibus herbis / devovit tacito tempore noctis anus? (“Forse con incantesimi o con succhi / malèfici una vecchia ti stregò / nelle silenziose ore notturne?”, trad. Guido Vitali5).
Tornando agli usi del vicino oriente antico, ci sono state tramandate tavolette di origine sumera e amorrea recanti formule di maledizione nei confronti di soggetti sconosciuti, mosse per motivi di natura di fatto politica e religiosa6. Nuovamente, è la parola pronunciata e incisa sul materiale durevole ad accendersi nel valore magico della comunione con forze non sempre visibili, spesso incontrollabili e fugaci, dal momento che le diciture più comuni scagliano possenti malefici di questo tenore:

Chi rimuoverà il nome di Narām-Sîn, il potente, il re della quattro regioni […] lo maledicano con una maledizione terribile [...] Ninhurshag e Nintu non gli concedano un figlio maschio e un nome (III millennio a. C.)7.

Il nome è qui oggetto della formula, scrizione sull’argilla o sul bronzo: chi non avrà téma di sostituirlo o rimuoverlo sarà punito senza riserve, lui e la stirpe sua. Un’altra qui di seguito, appartenente alla medesima epoca, pur di un secolo circa più recente: “chi cancellerà il nome scritto e vi scriverà il proprio, Utu, [re] di Sippar, distrugga la sua semenza”8. E ancora, in lingua accadica, dal I millennio: “Chi rimuoverà la mia iscrizione e il mio nome, i Sibitti, gli dèi di Amurru, lo colpiscano con il morso di un serpente”9. Dalla lettura delle due ultime testimonianze riportate mi pare emerga un dettaglio assai rimarchevole: si menziona la parola scritta, come se il sigillo del segno fosse il decreto che salda il nome alla sua origine trascendente.

Figura 1 (vedi sotto i riferimenti fotografici)

Voglio portare un caso geograficamente vicino al precedente, pur già proiettato in una dimensione religiosa altra, citando un passo del salmista:

inclinate aurem vestram in verba oris mei.
Aperiam in parabolis os meum;
loquar propositiones ab initio;
quanta audivimus et cognovimus ea
et patre nostris narraverunt nobis.
Non sunt occultata a filiis eorum in generatione altera10.

Intimando questo al popolo, il detto stesso sgorga i misteri ab initio. Percepisco un’intenzione non solo fondativa, bensì ancestrale, nella parola concessa dal nume, come se non ci sia modo altro di accedere a quello stato per forza rituale, senza il quale non esistono né conclusioni né iniziazioni.
Al contrario, oggi permettiamo alla parola di sfarsi in polvere circonfusa, attendendo che la lingua possa raggrumare tra le spire di una immanenza orizzontale, senza averne compassione o non sentendo il peso che essa esercita sul vissuto intimo ed estrinseco dell’essere umano proteso all’alterità. Cosa, mi domando, può reclamarsi poesia, qualora non si pasca in seno a una volontà che muove financo i popoli primitivi?
Le popolazioni Fataleka, autoctone delle isole Salomone, celebrano riti mortuari clanici scanditi da una sequenza molto rigida e precisa di avvenimenti11. La nominazione costituisce l’atto mnemonico più importante di tutta la liturgia funebre; nel corso della terza sequenza rituale, poi, il nome “reale” del defunto pare interdetto per essere sostituito da uno pseudonimo che “determina un grado di proscrizione tra i discendenti vivi”12. Il sacrificatore, nondimeno, è tenuto a conoscere una sequela di nomi veri e pronunciarli: questo assicura la natura esoterica a livello gnoseologico, come se tracciasse un confine di discernimento fra il sapere e il non-sapere.
Solamente occultando il nome, pertanto, i Fataleka concepiscono il decesso come evento compiuto e permettono alla morte il destinato cangiamento in principio.
Racconto inoltre un mito boscimano riportato da Seppilli nel volume di cui poc’anzi ho riferito. La Luna affida alla Lepre il compito di trasmettere agli uomini un importante messaggio: “Come io morendo resuscito, così resusciterete voi dopo la morte”. Le Lepre tuttavia disattende il dovere, e, diméntica del fatale messaggio, riferisce agli uomini un detto inappropriato: “Quando morirete, sarete morti per sempre”. E quello fu il destino effettivo che spettò loro13. Le genti tribali – anche quelle che praticano cannibalismo – sono, in questa consapevolezza, più accorte di quanto siamo noi transumani: la parola ha potere di modellare e stabilire, di ricostruire la glossa sacra, cifrario degli dèi, lingua degli uccelli, impregnata di fatum: ma solo se essa è quella precisa, pronunciata con la giusta significanza e cadenza dovuta.
Tento di chiudere il cerchio. La tenzone a parole, che precede o al limite sostituisce quella effettiva come riferivamo poco sopra al caso del poema teogonico babilonese, è un evento letterario e para-letterario in cui ci si imbatte con frequenza. Senza sostare oltre sui loci offerti copiosamente dalla poesia epica (lunghi sono gli agoni di retorica omerica che coinvolgono gli eroi acheo-traci prima che essi giungano a incrociare il bronzo – commovente addirittura l’episodio dell’Iliade in cui le parole rimuovono le intenzioni belligeranti: mi riferisco a Diomede e Glauco che, scoperte le vicendevoli comunanze nel nome della sacra ospitalità, abbandonano le armi balzando giù dai carri a stringersi la mano; e la similitudine che apre l’episodio disegna uno degli esametri in lingua greca al mio orecchio più suadenti, per perfezione in cesura e tratteggio melanconico: “Tale e quale la stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini”14), ritengo di affascinante complessione il poemetto medievale Sir Gawain e il Cavaliere Verde, appartenente al ciclo bretone. Vi si narra che durante i festeggiamenti del Capodanno un enigmatico personaggio bardato di armatura smeraldina, dall’aspetto imponente, si presenti come ospite alla corte alta di Artù. Egli pretende soddisfazione, ma non con la violenza: “mi concederai di buon grado il gioco che chiedo”15. Domanda infatti che un cavaliere di Camelot si offra a sferrare sul suo collo un fendente d’ascia. Dopo un anno e un mese, sarà invece egli stesso a restituire il colpo allo sfidante. Dopo che Gawain, giovane e prode tra i prodi, accoglie il guanto di sfida prestandosi al gioco sopraddetto e tronca di netto il capo al misterioso astante, costui nemmeno barcolla: “Eppure l’altro non cadde, neppure si mosse / ma risoluto avanzò sulle gambe possenti”16. Raccoglie invece la testa, che prese a parlare per ricordare gli accordi precedenti allo sventurato giovane.
Nella medesima struttura del pometto (pervenutoci in un’unica copia manoscritta del XIV secolo) mi pare di trovare una fra le innumere chiavi di lettura, dato che in corrispondenza dei cinque versi finali di ogni stanza, gli unici costretti in uno schema fisso secondo cui a un breve bob rimato A seguono i 4 versi wheel sequenziati BABA, la tensione cumulatasi dalla vicende cantata tende a risolversi con una sequenza di parole-formula concise, che fendono quella sola posizione ricordando – con le dovute intemperanze strutturali – la guisa dei congedi nelle sestine metriche. Quasi che in questa cauda si dia sintesi del flusso formulare dell’intera strofe, un sigillo scandito da necessari ritmi convenzionali. Così accade, ad esempio, nel primo canto dell’opera:

Saldo s’accomoda in sella, come se nulla
Gli fosse accaduto, benché non avesse
la testa.
Volse il torso d’attorno
Il corpo orrendo di sangue,
molti ebbero paura
quando finì di parlare.17

Ma finito non aveva, non del tutto, dal momento che la tenzone avrebbe previsto un colpo di risposta.
Robert Graves, con i suoi modi tortuosi, interpreta il cavaliere verde come simbolo della pianta d’agrifoglio (tinne, l’ottava lettera dell’alfabeto arboreo celtico beth-luis-nion) destinata ad assurgere “a maggiore gloria della quercia”18 (qui rappresentata a sua volta da Gawain) come segno di rinascita del ciclo stagionale: “secondo il mito gallese, il Cavaliere dell’agrifoglio e il Cavaliere della quercia combattono ogni Calendimaggio sino al giorno del Giudizio”19.

Figura 2 (vedi sotto i riferimenti fotografici)

Ma più interessante mi pare l’associazione della lettera T di tinne al dito medio, il cosiddetto “dito del matto”, tenendo presente lo schema della mano come tastiera alfabetica druidica: si tratta con evidenza del Cavaliere Verde stesso che, pur decapitato, si rialza e parla, sacralizzando di fatto il patto cortese. Il matto – il non-numerato tra gli arcani maggiori – è colui che dice, la voce oracolare.
Questo itinerario di iniziazione tra la morte e la vita si maschera da arguto gioco araldico, animato da pentangoli e cinture fatate, come spesso accade tra le intercapedini della poesia arturiana: l’anno successivo Gawain non potrà sottrarsi al colpo dell’avversario, che infine gli risparmierà la vita. Le buone norme del vassallaggio glielo impongono: ha dato parola, e – i melanesiani già lo sapevano – il corso deve conoscere la sua propria rigenerazione, giacché “di rado l’inizio è uguale alla fine”20.

Diego Riccobene
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NOTE
1 - Testi tratti da Mitologia assiro-babilonese, nella traduzione a cura di G. Pettinato, UTET, Torino 2005.
2 - Ibid.
3 - A. Seppilli, Poesia e magia, Einaudi, Torino, 1962.
4 - E. C. Agrippa, De philosophia occulta, Ed. Mediterranee, Roma 1972.
5 - Elegia I, 9, vv. 17-18. Versione tratta dall’edizione delle Elegie di Nicola Zanichelli, Bologna, 1943. I distici successivi, ancorché notissimi, sono ancor più eloquenti: “cantus vicinis fruges traducit ab agris […] cantus et e curru Lunam deducere temptat”.
6 - Cfr. Formule di maledizione della Mesopotamia preclassica, a cura di F. Pomponio, Paideia Editore, Brescia, 1990.
7 - Ibid.
8 - Ibid.
9 - Ibid.
10 - Salmi, LXXVII, 1-4.
11 - Testimonianze e osservazioni tratte dallo studio compiuto da Remo Guidieri, Il cammino dei morti, Adelphi, Milano 1988.
12 - Ibid.
13 - A. Seppilli, op. cit.
14 - Omero, Iliade, Rizzoli, Milano, 1996, trad. di G. Cerri.
15 - Edizione di riferimento in questa sede è quella curata da Pietro Boitani: Sir Gawain e il Cavaliere Verde, Adelphi, Milano 1986, v. 274.
16 - Ibid., vv. 430-431.
17 - Ibid., vv. 437-443.
18 - R. Graves, La dea bianca, Adelphi, Milano 1992.
19 - Ibid.
20 - Sir Gawain e il Cavaliere Verde, op. cit., v. 499.

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RIFERIMENTI FOTOGRAFICI
Figura 1 - Simboli delle principali divinità babilonesi, scolpiti sulla sommità di una stele confinaria, da Formule di maledizione della Mesopotamia preclassica, op. cit.
Figura 2 - Miniatura presente sul manoscritto originale di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, artista sconosciuto.

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N.d.R: Diego Riccobene ha contribuito allo speciale della Redazione de Le parole di Fedro "I Mostri" con un articolo dal titolo "L'uomo con le zampe d'uccello" (nel link qui a fianco troverete i collegamenti a tutti gli interventi dello Speciale). Della sua raccolta poetica Synagoga (Fallone, ed, 2023), Le parole di Fedro ospita una nota di lettura di Sergio Daniele Donati.

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