(Redazione) - Specchi e labirinti - 25 - Le galline capitaliste

A cura di Paola Deplano

Mentre nascevo nevicava così tanto che l'ostetrica è arrivata a cose fatte: ho imparato presto a cavarmela da sola.
La signora Eleni era l'ostetrica del villaggio, nonostante fosse probabilmente semianalfabeta e sicuramente sempre sbronza. La sua Dacia sbiadita e sbatacchiata percorreva a tutto gas le strade sterrate del circondario, sollevando, a seconda della stagione, nubi di polvere o schizzi di fango. Le galline, che di solito passeggiavano indisturbate per le vie del centro, al suo arrivo scappavano terrorizzate, nel disperato tentativo di non rimetterci le penne. Alcune di esse - le ritardatarie o le distratte - proprio non ce la facevano a scansarla e finivano sotto le ruote. A quel punto Eleni le acchiappava per le zampe ancora agonizzanti e le sbatteva in macchina senza tanti complimenti.
Se il padrone correva a rivendicarne il possesso, la donna se la cavava dicendo che una gallina incustodita è una gallina di tutti, dunque anche sua. Anzi, soprattutto sua, perché era lei che l'aveva ammazzata.
In paese si diceva che quelli non erano incidenti, ma consapevoli e calcolati gallinicidi, in modo da procurarsi almeno una tazza di brodo di pollo al giorno. I soliti bene informati sostenevano che la signora Eleni aveva detto alla vicina che una tazza di brodo quotidiana era un toccasana per le rughe. Doveva essere senz'altro una bugia, perché a guardarla in viso non si notava nessun effetto miracoloso sulle rughe, anzi. Era forse la più brutta del paese e veniva spesso nominata dalle mamme disperate per spaventare i piccoli che non volevano saperne di dormire. In più, era eterna o quasi: oltre a noi, aveva fatto nascere mio padre e mia madre e tutti i loro fratelli e sorelle.
Nonostante i suoi lucidi attentati ai volatili, la gente si tratteneva dal picchiarla perché, sebbene totalmente inaffidabile, l'unica ostetrica in giro era lei, e come tale conveniva tenersela cara, perché poteva servire a chiunque.
Allora da noi in Romania di bambini ne nascevano molti. Io stessa sono la terza di sei figli. Mi chiamo Romina, che è un nome molto strano e da noi non usa. Questo nome è il frutto del sogno più grande di mia madre: visitare Roma.
Quando mia madre era bambina si sapeva che in Italia c'era questa bellissima città, più o meno come si riteneva possibile che esistessero i vampiri, le fate e l'Aldilà. Insomma, non se ne era tanto sicuri. A scuola nelle cartine geografiche l'Italia non c'era. La situazione la salvava comunque la storia: questa benedetta Roma, se non c'era attualmente, c'era comunque stata. Un grande impero con soldati che avevano conquistato tutto, un grande impero che poi era finito perché gli imperatori, invece di fare gli interessi del proletariato, si facevano gli affari loro. Ma erano finiti tutti morti ammazzati. TUTTI!
Ecco che succedeva ai capitalisti, diceva la maestra della mia mamma. E i bambini tremavano. Meglio non essere capitalisti, pensavano i bambini, si faceva una brutta fine, come le galline sotto la Dacia della signora Eleni.
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