SPECIALE: Conversazione davanti a un fiume (Cristina Daglio e Sergio Daniele Donati)



Cristina: ci eravamo lasciati sotto una pergola, ora mi piace immaginare di incontrarci lungo un fiume con un termos, una tovaglia e una torta e due zaini colmi di libri. Vorrei chiederti cosa leggiamo? Intendo non solo cosa stai leggendo, ma anche il come lo fai, qual è la tua strumentazione e cosa cerchi.
Penso che a volte si parta troppo preparati, altre completamente incoscienti a cosa si sta andando incontro e che a volte ciò che leggiamo lo restituiamo a seconda di ciò che riusciamo a scorgere. E qui le parole aiutano fino a un certo punto, possono anche fuorviare.
Oppure aprire nuovi mondi e modi di condivisione del sapere.

Sergio: il fiume, Cristina, è già di per sé per me memoria e simbolo della parola, di quel flusso di coscienza che pare non aver mai fine, salvo momenti di grazia, nella nostra mente, sempre abitata da un dire (a noi stessi? agli altri?), da una narrazione che mai ha fine. Allora prima di dirti quali autori e quali opere ho portato nel mio zaino, poiché vengo da una vecchia scuola, ti dirò che immancabile, quando leggo, è la presenza di un taccuino e una penna (o una matita). Per me, non solo lettura e scrittura sono indissolubili, ma lo sono anche lettura e trascrizione di citazioni.
E le citazioni, per un anziano signore come me, vanno scritte a mano, meglio se in stilografica, su un taccuino. Ne ho a decine e ogni tanto li rileggo, rinverdendo il piacere di quella particolare lettura o di un passaggio che mi ha in modo specifico colpito.
Perdita di tempo? Certo, forse è così. Ma è anche vero che lo trovo eticamente fondante: una sorta di assunzione della postura del guardiano della memoria.
Accetto di essere abitato da parole, a patto che loro accettino di essere da me trascritte a futura memoria.
Come prima lettura ti proporrei di dare un piccolo sguardo indietro. Non farci caso, è la mia natura: non riesco a tuffarmi nella contemporaneità prima di aver dato un riconoscente abbraccio a coloro che quella contemporaneità hanno preparato. Allora tiro fuori dal mio zaino la triade che sempre mi accompagna.
Rilke, Jabès e Celan.
Ti va bene? O preferisci parlare di altri autori? O vuoi dirmi cosa tieni tu nel tuo zaino? Noi dei gemelli siamo molto curiosi, si sa? Non tenermi troppo sulle spine.

Cristina: il fiume è il fiume, un continuo mutamento e un continuo rigenerarsi e alimentarsi, ma anche la calma che riesce a creare il rumore bianco, quella zona di riflessione più o meno conscia che tutti coloro che frequentano l’arte hanno necessità di avere. Mi sembrava quindi perfetto come ambiente neutro per poter ascoltare, senza distrazioni.
Trovo che non sia importante il cosa si fa, quanto il come lo si fa. Io ho scritto di uno zaino pieno di libri e tu sei già agli autori, quindi si è passati da un supporto (medium) a persone e vite. È interessante e in qualche modo legato al nostro tempo.
Ci torneremo, credo, ma adesso ti rispondo. Io ho sempre in borsa un quadernino, una matita e una penna, ma anche il cellulare e utilizzo tutto quando leggo: matita e penna per segnare, cellulare per andare a cercare informazioni o riferimenti (e nei libri che sto leggendo ultimamente ce ne sono sempre tanti, talvolta troppi); lo smartphone lo utilizzo anche tanto per appuntarmi i concetti quando vado a incontri e letture. Il quadernino invece salta fuori solo in seconda battuta se quel che ho ascoltato (letto) mi fa scaturire qualche percorso in più.
Come vedi, e non ti avrei mai definito “anziano signore”, anche io prediligo lo scrivere a mano, anche perché per una non scrivente questo è estremamente importante in quanto Gesto. Ero settimane fa a Piacenza all’inaugurazione della mostra di Maurizio Caruso e lì ho ascoltato l’intervento di Gianfranco Lauretano che è illuminante nella sua semplicità non banale di attraversare i vari piani del fare e le varie arti. Sintetizzando al massimo l’arte si forma come disconnessione dalla realtà che ci circonda e nella quale siamo immersi e come tale parte dal Gesto, dalla volontà di essere e di esistere in quanto arte. Da lì si passa da dentro al gesto all’osservatore in un moto di dentro-fuori che crea la narrazione dell’artista. Oggi nel nostro mondo l’importanza del Gesto è centrale, secondo me; sia quello dell’autore che quello del ricevente, sia lettore spettatore o uditore.
Quindi forse lo strumento che uso di più è la curiosità di scoprire quale sia il Gesto e quale sia la chiave di lettura originale che il mio leggere può dare.
Per ciò che riguarda i libri, tu hai citato delle pietre miliari, basilari direi per chi scrive poesia. Io nel mio zaino ho diversi libri: ce ne sono di matematica, altri di fisica e alcuni di neuroscienze, poi ci sono gli autori che amo e che sono sempre con me: Pavese che è l’unico di cui io abbia letto e riletto più volte tutta la produzione (alcuni volumi in edizioni con testi critici differenti); Sereni che è stato il primo libro di poesia che mi è stato regalato da un Professore che insegnava nella mia scuola e che poi tanti anni dopo è diventato uno dei narratori di punta di puntoacapo; poi ci sono Yeats ed Eliot che mi ha fatto conoscere Mauro Ferrari prima ancora di immaginare la Casa Editrice; infine ci sono i libri di prosa Calvino, Dickinson, Austen, Fitzgerald, Hemingway, Levi e Ginzburg. In realtà ce ne sarebbero tanti altri tra i contemporanei e anche alcune antologie che mi stanno aiutando in alcune ricerche.

Sergio: Ciò che dici sulla gestualità della scrittura (e della lettura) è tema a ma davvero caro. Sarà la mia formazione pluriventennale nelle arti marziali, sarà un certo mio trasporto per la cultura nipponica, sarà l’aver meditato da sempre ma non riesco a distinguere in nessun modo l’attività intellettuale dal corpo. Per me ogni scrittura, prima ancora che suono e ricerca, è essenzialmente gesto, se vuoi calligrafia.
E provo un piacere quasi-erotico nel sentire il contatto tra il pennino e il foglio di carta. Spesso è stato quel lieve e roco fruscio a darmi le idee su ciò che volevo scrivere, ancora prima di sapere cosa stavo per scrivere. E poi ho dimenticato - e su questo lapsus dovrei riflettere - porto sempre con me, spesso in tasca, un sassolino che tengo sempre in mano (in alternativa alla penna) quando devo concentrarmi sulla lettura.
Ho capito col tempo che i motivi per cui lo faccio sono plurimi e tutti ugualmente importanti.
Alcuni di essi hanno a che fare con la formazione marziale che citavo prima e col mio rapporto col corpo.
Avere qualcosa in mano mi aiuta a ricordare che esiste sempre un altrove rispetto al grande altrove che la parola altrui rappresenta per noi. Un sassolino in mano è per me la mappa del ritorno a sé, necessario quando si legge e studia, soprattutto certi tipi di testi.
Il palmo poi nel tenere qualcosa a lungo, sviluppa un calore che lentamente si diffonde a tutto il corpo per arrivare, infine, al cervello, rendendo più morbida la lettura, specie nei passaggi difficili.
Altri due motivi della presenza del sassolino sono essenzialmente linguistici, il primo legato all’etimo della nostra splendida lingua, il secondo a quello dell’altrettanto ricco ebraico.
Apprendimento, comprensione, apprensione sono termini del registro trattile, della capacità anatomica che deriva del nostro pollice opponibile di tenere in mano qualcosa. Se vogliamo dirla alla nipponica: nessuna comprensione può avvenire fuori dal corpo.
Aggiungo poi che anche il termine tenuta ha un senso profondo quando leggo e studio, un richiamo ad un certo sforzo di concentrazione che ogni mente deve fare per non partire nei suoi voli pindarici, trovandosi poi a dover rileggere mille volte lo stesso passaggio.
Se tengo un sasso in mano, in altre parole, ho memoria dell’onere, e onore, della tenuta nella lettura.
E veniamo all’ebraico.
Nella lingua dei miei avi sassolino si dice even. IL termine è un chiasmo tra av (padre) e ben (figlio), e ricorda simbolicamente l’onere (e anche qui l’onore) della trasmissione.
Per questo motivo, tra l’altro, nei cimiteri ebraici sulle tombe non trovi fiori ma sassolini di diversa forma e colore.
Si legge e si studia, in altre parole, tenendo un sasso in mano, perché è memoria del fatto che nulla è fatto solo per sé. Ciò che si apprende deve essere poi rimesso nel grande fiume della trasmissione che l’amena location che hai scelto per questo nostro secondo incontro incontra.
Ecco. Queste piccole consapevolezze che passano sia dal corpo che dalle lingue che mi appartengono sono per me fondamentali quando leggo.
Gli autori che hai citato, poi, mi sono tutti particolarmente cari, Pavese in primis che anche io ho letto e riletto tantissime volte. Hemingway poi, specie quello dei racconti, è stato per me formativo negli anni a più riprese.
Anche se, lo cito ora, il mio vero romanzo di formazione è stato Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig, letto nel corso degli anni una ventina di volte, in tutte le stagioni della mia vita.
E ti svelo un segreto. Il nome del litblog che ho fondato - Le parole di Fedro - non deriva il suo nome dal geniale favolista latino, né dal personaggio del famoso dialogo platonico.
No, è il Fedro di Pirsig, a essere l’anima di ciò che sta dietro la nostra idea (abbiamo una magnifica redazione che per me è un dono).
Un personaggio ectoplasmatico le cui tracce, avrai letto il romanzo, si cerca con difficoltà di far emergere. Un personaggio quasi pericoloso nel suo manifestare la follia di un’idea pura della conoscenza, senza tener conto del limite dell’umano.
Credo davvero che la formazione sia perpetua, anche se, certo, i libri che si leggono in età adolescenziale e di prima maturità lasciano in noi segni molto profondi davvero.
Ma siamo in perenne richiamo di quello stupore bambino quando leggiamo, di quella necessità di ritrovarci non saputi davanti a qualcosa.
Per questo ti confido un segreto, nel mio immaginario zaino troverai sempre anche Rodari (soprattutto quello de “La grammatica della fantasia”), Toti Scialoia, e qualche classico dei libri di fantasia (Il signore degli anelli, I racconti fantastici di Hoffman, Verne, Le fiabe italiane di Calvino, Poe e la fantascienza visionaria di P. K. Dick).

Cristina: a mio solito, parto dal fondo, perché, come nostro solito, un discorso rettilineo e non tortuoso non ci riesce. Non ho citato la letteratura per l’infanzia solo perché io ancora oggi acquisto albi e libri per bambini e ragazzi, nonché libri di mondi. Per libri di mondi intendo Tolkien, Pullman ma anche i miti della Creazione dei nativi americani o dei subsahariani. Semplicemente meraviglioso “Le terre immaginarie - Un atlante di viaggi letterari” a cura di Huw Lewis-Jones edito in Italia da Salani.
Per molti questo è un vezzo, mentre io ne traggo costantemente stimolo. Voglio dire che tutti coloro che sono oggi lettori, sono stati lettori anche nella fase evolutiva e credo o almeno per me in parte è così, quegli incontri sono gli archetipi e i setacci che usiamo sia nella lettura che nella scrittura. Non è un mistero per nessuno il mio amore per la figura di Ulisse (tanto che ho dedicato più di un post alle letture di saggi come quello di Bianca SorrentinoPensare come Ulisse”, il Saggiatore) che credo di aver visto la prima volta in tv quando ancora venivano trasmessi sceneggiati come l’Odissea e gli Argonauti. Con lui sono arrivate anche tante altre letture adulte, dalla Miller al testo fortemente legato ai miti di Donatella Bisutti (“Erano le ombre degli Eroi”, Passigli, 2023). In fondo quando leggo di un viaggio, il riferimento è sempre lui. Allo stesso modo quando sento “il mostro ha paura” (cit. Samuele Bersani, ma anche il nuovissimo recital di Enrico Galiano) mi è impossibile non tornare a “Nel paese dei mostri selvaggi” di Maurice Sendak o a “Frankenstein” di Mary Shelley.
Se ci riflettiamo un secondo le letture di formazione sono sempre letture che arrivano da un gesto: lasciare i libri in giro per casa, proporli a scuola, sintonizzare la tv sui documentari anziché sui reality, accompagnare i ragazzi a teatro, fargli ascoltare musica di vario genere, ecc.
Il gesto di aprire un libro, vergare un biglietto e ascoltare un racconto. Sono tutte azioni corporali che passano per i sensi, che ci permettono di sperimentare il corpo delle cose, anche di un testo. Non mi stupisce il sassolino, la sua funzione mi fu spiegata tanti, davvero tanti anni fa a Praga, e poi frequento sovente i Giardini dei Cimiteri Ebraici e credo che la pace e il pensiero di riposo e responsabilità sia molto simile a quelli che si respirano in Oriente. 
Tu sai, perché ne abbiamo chattato subito dopo la mia “regola di Agosto”, che anche le discipline orientali hanno una certa influenza sul mio leggere e fare. La compostezza dei movimenti (per quanto la grazia non è una delle doti che metterei in relazione a me) e la ricerca della precisione del gesto, qualsiasi gesto. Ancora più sacro quello della scrittura (ne scrisse e parlò già Confucio), alla presenza vera dell’essere. E qui la tenuta e la concentrazione, che non dovrebbe essere dolorosa ma vero spazio libero. Siamo abituati a dire “devo concentrarmi” ma nelle regole orientali la concentrazione consiste nel fare spazio lasciando fuori tutto ciò che non è utile al compimento del gesto.
Per divenire se vuoi, fuori dal corpo, sacro.
Certo la formazione di ciascuno deve essere perpetua, è una necessità dell’essere umano. O almeno io credo sia così, l’essere umano non può stare fisso nella sua zona di comfort, dopo un po’ cercherà di superarsi o esperienze diverse, o nuove fonti, o nuove lingue o linguaggi.
Tu hai parlato di eros nello scrivere a mano, ecco io credo che malgrado Massimo Recalcati abbia prodotto un programma televisivo nonché un libro sull’erotica dell’insegnamento, molti prima di lui, Jaques Lacan in testa, abbiano ben dipanato il mito del desiderio. La tensione alla mancanza e credo che tutto ciò che è gesto artistico in un modo o nell’altro sia sempre legato al tendere alle stelle, alla luce, a quella presenza che ci guida anche al buio, quella spinta che ci fa cercare il nuovo e lo sconosciuto.

Sergio: Non so perché, ma mentre ti ascoltavo, mi è venuta in mente la musica della Sinfonia n. 4 di Arvo Part. Ecco forse ciò che cerco nelle mie letture del fantastico: quell’atmosfera costante di tenuta e attesa di qualcosa di grande che si disvelerà. La stessa tenuta che si trova in quella sinfonia, fatta di pochi suoni e tanta vibrazione nascosta. È difficile per me, sai, distinguere la lettura dai suoni, non solo delle parole, ma anche delle musiche che immagino le accompagnino. Odisseo, lo sai mi è molto caro, ne ho scritto parecchio, soprattutto in poesia. Ed ho sempre avuto l’impressione che in pochi abbiano messo in risalto quale sia il motivo profondo della sua proverbiale astuzia e intelligenza.
Io credo che Ulisse sia qualcuno che davanti al mistero sa attendere.
Attende con calma che i troiani cedano al tranello del suo cavallo
Attende legato all’albero maestro (si lega prima) le voci delle sirene
Attende la notte per fuggire da Polifemo e, soprattutto, attende un’eternità prima di tornare ad Itaca.
C’è una saggezza antica nella fantasia che a mio avviso è legata alla capacità d’attesa, e di stasi. Nessun romanzo, dal ciclo Bretone a quelli di Goodkind, è solo azione. E le parti in cui gli eroi paradossalmente si preparano allo sconosciuto hanno un che di veterotestamentario, ma anche di vetero-testardo.
Il non conoscere la meta del viaggio unisce Odisseo ad Abramo, e anche una certa attitudine testarda di fede nel viaggio in sé ( anche nel Sé - non lo disconosco) rappresenta un elemento di non poco conto per le due mitologie. Ecco questo trovo spesso nei romanzi cosiddetti di fantasia o meglio, se manca, il romanzo perde molta della sua potenza.
E, in fondo, cosa ci forma quando siamo giovani (d’età o come lettori) se non l’attesa?
Quel de-sidera, quella mancanza del mondo altro che sta alla base del nostro desiderio, ma anche del nostro movimento, è, se ho ben letto tra le tue righe, elemento importante per entrambi. E il tuo riferimento alla sacralità e tenuta del gesto per le culture estremo orientali mi appartiene fin dai midolli.
Ho alzato troppe katana al cielo per non sapere, quando scrivo, che la stessa tenuta e rispetto per l’antichità di quel gesto è richiesta dalla scrittura.
E conosco tra i miei avi il sacrificio estremo per salvaguardare il messaggio contenuto in un Libro, per non sentire anche qui la piena responsabilità quando, con mani troppo inesperte ancora, compio lo stesso gesto di lettura e studio.
Questo è per me onorare con ogni propria fibra ed eleganza possibile e tenuta la parola, ed è per questo che nessuna parola io la sento mai come mia.
Semmai, al contrario, mi percepisco - sia quando scrivo che quando leggo - come chi si mette al servizio di qualcosa di immenso che ha avuto inizio nella notte dei tempi e continuerà per millenni dopo di me.
Non so perché ti parlo di questo. Forse perché a te sento di potermi aprire e dirti che se perdessi la sensazione di un flusso che va ben oltre me stesso, scrivere e leggere per me non avrebbe più alcun senso.

Cristina: sai per me Ulisse è un uomo che fa un viaggio di ricerca, dentro e fuori di sé. Viaggiando e aprendosi agli altri impara come è lui. Ulisse è il mare: davanti a lui ci si perde e al tempo stesso ci si ritrova, talvolta ci si specchia. Nel trionfo come nella sconfitta. Mi piace pensarlo assorto su una scogliera a ritagliarsi un attimo di pace dalla battaglia per poterla vedere da una prospettiva diversa. è l’uomo della vista, della visione se vogliamo e della lettura in senso ampio: Ulisse sa leggere i tempi, i vizi, le debolezze altrui. Conosce la lusinga così come l’umiltà e sicuramente in vecchiaia ha conosciuto anche la pazzia e la decadenza della mente (in questo la Miller in Circe narra ciò che io ho solo immaginato, anzi qualcosa di più rendendo il mito uomo e l’uomo in quanto tale invidiabile dagli dei).
Ha sete Ulisse, una sete implacabile di conoscenze in ogni aspetto della vita ed è un uomo di scelte. Talvolta impopolari, ma sempre scelte. Azione quindi ma io credo anche grande riflessione, se nei poemi sembra quasi che le sue siano illuminazioni io amo pensare che Ulisse per come l’ho descritto sopra, in realtà, debba le sue scelte a pensieri e distinguo maturati in anni, sulla base di una intuizione che lo ha portato esattamente a quel punto in quella situazione esattamente perfetta per metter in atto ciò che ha pensato. è un uomo se vuoi, molto femminile, in molti aspetti. La sua attesa è sempre vigile e attiva, di osservazione. è attesa feconda, pace prima dello scontro. Eppure molto parco nel parlare di sé, quasi pudico in questo. D’altro canto se ci si pensa a parte il lettore nessuno dei personaggi con i quali interagisce può dire di conoscere Ulisse, anzi lui rimane sempre in parte mistero e paura. Inoltre è un superstite, un sopravvissuto quindi una figura in cui tutti si possono riconoscere e per questo anche investito da senso di colpa in egual misura a quello di responsabilità, verso i vivi verso i morti verso la Storia. E qui c’è il collegamento con quello che tu senti come dovere verso le generazioni passate. Con ciò che hanno lasciato.
Ho ritrovato molti personaggi costruiti con le varie declinazioni del viaggiatore nel ciclo di Avalon. Se non si hanno preconcetti sul fantasy questo ciclo vale veramente la pena sia per come è scritto (anche nella traduzione in Italiano), che per la prospettiva che offre (per chi non lo conosce si tratta di una riscrittura del ciclo di Artù attraverso le vite delle donne e in particolare con la vita di Morgana) e anche per la ricostruzione di alcuni riti e tradizioni. Ecco di nuovo l’archetipo-Ulisse: la curiosità di culture che per tradizione non conosciamo, restano una cosa da nerd o da fissati. Quel mito ha aperto anche allo studio di figure di guerriere (dei combattenti uomini sono pieni i libri di storia) che finalmente nell’ultimo secolo si sono riscoperte e delle quali si stanno ricostruendo le biografie.
E giustamente tu associ fantasia all’attesa, la noia ha la più grande funzione in fase evolutiva di spingere il cervello plastico a modificarsi continuamente per trovare intrattenimento, stimolo, appagamento e piacere. Non è un caso neanche che i grandi mondi fantastici siano stati composti in periodi di guerra o di oppressione: la mente ha la capacità di poter riplasmare la realtà e sorpassarla. Ricordiamoci sempre che in narrativa fino all’Ottocento il romanzo superava sempre la realtà, ora il nostro mondo invece sembra voler invertire questo movimento, farsi fagocitare dalla scrittura.
Torniamo un attimo al gesto, scusa che ho divagato, ma se tu ci pensi la scrittura, specie quella a mano, è esattamente il percorso del pensiero: si forma, lo medito, lo fisso. Flusso da un posto (la mente) a un medium (il foglio); in mezzo la mano. E il posto di partenza può essere un altro medium come un libro o un quadro o un film. Il processo di scrittura quindi non è mai orgasmico, anche se il digitare può sembrarlo. Se ci rifletti il ticchettio dei tasti crea una specie di rumore bianco che ci estranea dal mondo circostante e riproduce, tirandola un po’ per i capelli, la bolla di riflessione pre-scrittura. In tanti mi raccontano di salvare molte più poesie scritte a mano rispetto a quelle scritte al pc, e anche le correzioni vengono fatte in maniera completamente diversa. Anche questo ha a che fare col corpo e con la sua capacità di adattamento. Nonché con la sua plasticità.
Ma anche il corpo come la mente ha continuamente necessità di soglie. Per questo tu mi parli di “flusso”: ma il flusso non è, in fondo, il continuo divenire di soglie che si oltrepassano e ci attraversano? O sulle quali sostiamo. Anche l’atto stesso come ho scritto sopra è un flusso. Tutti i flussi, siamo su un fiume dopo tutto, possono essere singoli oppure crescere come un torrente che si getta in un altro con l’incontro e la conoscenza. Se la si vede così il Sapere Universale non è che un insieme di fili in continua espansione ed evoluzione (e trovo meraviglioso che l’immagine che mi viene in mente da legare a questo concetto sia quella della costruzione della rete neurale umana) e ciascuno è responsabile di ciò che è prima e di ciò che sarà dopo.
Questo è un po’ anche il senso del mio lavoro, e dopo tutto Loi scriveva: “il poeta è uno che impara le cose dopo averle scritte

Sergio: Magnifica la tua descrizione di Odisseo che - scuserai la mia deviazione dal seminato - mi pare essere molto calzante a chi affronta il viaggio nella parola poetica. La parola ci sperde, in un certo senso ci frammenta in pezzi di puzzle che solo una calma certosina sa ricomporre. In ogni parola, credo, è compresa la decomposizione del significato del silenzio e allo stesso tempo il bugiardino delle avvertenze su come ricostruirlo.
E il viaggio nella parola è quasi sempre e contemporaneamente fuori e dentro di sé, come quello di Ulisse. Tu dici con Loi - e io mi commuovo - che il poeta è uno che impara le cose dopo averle scritte.
E se mi chiedo quale sia il motivo profondo di questa mia commozione, mi pare di poter dire che la comprensione delle cose dopo la scrittura ci riporti ad una poetica che non si può non definire una pratica interiore, in cui il gesto corporeo ha un peso, così come lo hanno i materiali usati, gli inchiostri, i fogli e i pennini, o i testi del PC su cui si scrive.
C’è un dato artigianale nella scrittura che purtroppo una visione postmoderna della poesia nega, ma dal quale io non potrei mai staccarmi.
Un dato profondo che mi ricorda che è necessario prima di scrivere mettersi in ascolto sia della propria voce interiore, sia delle voci che ci giungono da un chissà dove molto fertile, prima di lasciare il primo segno sul foglio.
In questo senso, nella dimensione sia del viaggio che dell’attesa, credo che il moderno Ulisse sia chi scrive, se mosso da quella sete di conoscenza di ciò che è sia dentro di sé che fuori da sé.
In ebraico esiste un magnifica false friend, una omofonia che avvicina la parola voce alla parola tutto.
Parlo di false friend perché le due parole, benché si pronuncino entrambe kol, si scrivono con lettere e radici diverse. La loro vicinanza è solo sonora.
Ma io ho frequentato maestri che mi hanno insegnato quanto possa valere per chi scrive anche un mero richiamo sonoro e, quindi, la mia mente in questa omofonia si sperde.
Siamo abitati da voci, spesse volte antiche e austere, altre ridenti e bambine, e allo stesso tempo siamo attraversati da voci altre, che, nella stesse rete neurale che tu citi, creano sinapsi tra il nostro qui e ora e un altrove che va indagato.
Il tutto altro non è che la nostra capacità di aracnide di rendere la nostra tela d’ascolto sempre più sensibile.
Abituarsi alla frammentazione, al limite che ci ricorda sempre che noi - parti - non potremo mai cogliere completamente il tutto, non ci impedisce di tracciare linee immaginarie di comprensione. Perché la nostra immaginazione ha un effetto creativo e plasmativo della realtà.
Vuoi un esempio, forse il più toccante?
Il Mito ci ha permesso di tracciare linee immaginarie tra stelle senza una reale relazione fisica tra loro, astri spesso distanti anni luce l’uno dall’altro.
E ne abbiamo ricavato delle figure - le costellazioni - cui abbiamo dato i nomi di chi il mito abita: Cassiopea, Orione, Taurus - sono frutto della nostra esigenza di tendere legami tra ciò che non è fisicamente legato.
Un sogno? Forse, anzi sicuramente sì.
Ma quello stesso sogno ha permesso ai naviganti per millenni di orientarsi e approdare al giusto porto.
L’immaginazione ci ha orientato, ha rivolto il nostro sguardo verso un Oriente che quasi tutte le grandi vie spirituali vedono come meta ultima.
Non è necessario certo che lo dica a te, ma, in questo passaggio della mia vita è necessario che lo ricordi a me stesso: scrivere è sempre tracciare nuove costellazioni, e non dovremmo dimenticarlo, così come non dovremmo dimenticarne la responsabilità se non vogliamo che la nave dell’Altrove, il cui timone è nelle nostre mani, faccia naufragio.

Cristina: la Parola è sempre una responsabilità. Che la si scriva o la si pronunci, o la si taccia.
E dovrebbe essere nel ruolo dell’intellettuale riuscire a capire la forza e ad ampliare il cerchio di chi arriva a quella Parola. Esporsi e rendersi vulnerabili portando la propria rielaborazione di ciò che si è studiato/letto/sperimentato. Guardando il Primo Extra di zona | disforme di Carlotta Cicci e Stefano Massari, dedicato a Roberto Galaverni mi sono imbattuta in una sua riflessione riguardo alla Critica: due persone che consciamente si trovano a parlare di libri, di scritture, di linguaggi non stanno in realtà già facendo critica? Allora come ha anche constatato Andrea Temporelli qualche mese fa in un intervento sul suo blog, occorre avere la capacità di cercare chi si sta esponendo, chi sta cercando di fare un passo oltre il mero studio e il mero leggere. Che ci sta, ma che può (forse, deve) aprire altrovi, discussioni, riletture. E qui cito il mio amico/collaboratore/poeta/filosofo Alessandro Pertosa che in “Parola di Isacco” scrive: senza uno sguardo rivolto al cielo / frana il terreno sotto i piedi” e in seguito “non della certezza andiamo in cerca / ma del dubbio”. Credo che qui ci sia il senso definitivo e intimo di ricerca, per tornare all’Ulisse. Ma oltre la ricerca, va la vivificazione della parola e allora forse ricordare che Goethe scriveva “Prima di cantare, / prima di fare silenzio, / il poeta deve vivere” può essere traslato sulla parola: dal foglio deve trasportare in un altrove per renderlo e renderci vivi.

Dell’inabitazione e del plasmare la realtà con le parole avevamo già parlato lo scorso incontro e io ora ho necessità di ascoltare il fiume.


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La prima parte della conversazione con Cristina Daglio la trovate qui
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Commenti

  1. Giuseppe Nisi04/10/23, 15:36

    dialogo meraviglioso...panta rei....tutto scorre: il fiume il tempo le pagine dei libri il mare e in tutto questo scorrere soltanto poche sparute itache cui far finta di tornare

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