SPECIALE: Conversazione sotto il pergolato (la "poesia" per Cristina Daglio e Sergio Daniele Donati)


CRISTINA: Sabato sera al Nuovo Armenia non ti ho riconosciuto e allora facciamo finta che ci siamo dati appuntamento al bar All’Angolare per poter stare tutto il pomeriggio sotto il pergolato coi tavolini d’epoca e le restrizioni puriste nelle consumazioni e parlare.
Ci hai fatto caso che è sempre più difficile sedersi ad ascoltare poesia e a parlare di lei senza che qualcuno poi non ti dia il suo libro da leggere (e se possibile scrivi due righe?). Una volta non era così. Quando io mi sono affacciata al mondo degli scriventi si andava a sentirli, si prendevano appunti e poi si tornava a casa con qualcosa su cui riflettere, mille letture nuove e magari qualche indirizzo con cui poi iniziare uno scambio epistolare. Quasi mai si prendeva la parola se non per fare domande, ora invece il trend è quello di fare un intervento parallelo, di quelli che sia chi ascolta sia chi è relatore guardano pensando “e la domanda qual è?”
Abbiamo perso la lentezza dei gesti, io per prima, non mi tiro fuori, ma mi sono ritagliata attimi di fermo immagine in cui leggo ascolto e scrivo per confrontarmi con gli altri. Per questo oggi ti ho chiesto di tenerti libero tutto il pomeriggio. Io mi alimento di condivisione con gli altri, sono un animale strano fatto di relazioni.

SERGIO: Oh, quanto hai ragione, Cristina. Il tema della lentezza, a me tanto caro, sembra ormai dimenticato dai più. Così come dimenticato sembra essere quello della necessità in primis di sviluppare l’ascolto, prima di poter parlare di scrittura e poesia. D’altronde ormai abbiamo omesso quasi del tutto la domanda principe: cosa è poesia?
E, al contrario, tutto sembra concentrarsi su un corollario a mio avviso del tutto inutile.
Sembra quasi che ci sia un affanno a dirsi - o definirsi - poeti prima di essersi chiesti quale argilla sacra si maneggi quando si scrive un verso.
Sembra sempre di più dimenticata un’idea di poesia e scrittura come attraversamento, come fenomeno ben più ampio del piccolo respiro del poeta. E, certo, in questo non saper vivere la lentezza ha un peso.
Perciò sono molto felice di questo nostro incontro sotto il pergolato. E ti voglio porre una domanda.
La scrittura - la poesia - è davvero proprietà o possesso del suo autore? O forse non è più vero il contrario che i versi di chi scrive sono sostenuti da un flusso millenario che inizia molto prima di ogni individuo e terminerà, se mai terminerà, solo molto dopo la dipartita di quello stesso poeta?
Ecco più che la lentezza io patisco molto gli aggettivi possessivi messi davanti a scrittura o poesia.
Non so dire cosa sia la MIA scrittura…non so nemmeno se esista, anzi penso che non esista proprio.
Per me poeta è un recettore e traduttore e, se è in gamba, diffusore di voci altrui, sempre.
Ecco vorrei sapere il tuo pensiero su questo.


CRISTINA: Andrò per punti perché mi hai dato tanti stimoli. Primo il tempo: credo che sia l'unico vero grumo che accomuna tutti gli esseri umani sulla terra. non lo si può possedere, solo investire di valore con quello che si decide di fare (o non fare).
Prenderlo, concederselo meglio, è qualcosa che nella nostra società sta diventando un lusso. Siamo sempre alla rincorsa della notizia, dell’ultima uscita, in fin dei conti dell’ultima parola o la prima. Ma il mondo letterario è sempre in debito e in credito col tempo. I libri ci permettono banalmente di viaggiare nello spazio ma anche nelle epoche; dall’altra parte ci obbligano (o dovrebbero) a concentrarci su un testo sul suo sapere comunicare o al contrario celare un contenuto. E questo ci lega al secondo punto: l’ascolto.
Ci perdiamo costantemente nel mare di informazioni che ci circondano e queste provocano rumore di fondo (questo accade anche nelle scritture che vengono proposte su qualsiasi tipo di piattaforma oltre ai libri) che può sviare l’attenzione. Il testo, qualsiasi forma abbia, necessita di cura, prima da parte di chi lo produce e dopo da parte si chi ne fruisce. Attenzione alla struttura ma anche all’uso delle parole, o se vogliamo della Parola. Quella cosa che ci rende diversi dagli altri animali e che ci permette di comunicare, ma va oltre; riempie di significati diversi lo stesso grafema oppure ne indica uno solo, preciso, impossibile da confondere. E questo è un potere che ha solo il linguaggio umano. La parola umana. Per questo va ascoltata attivamente e rispettata, nel contesto in cui viene scritta (e qui ci sarebbe da aprire una lunga digressione sulle revisioni che non tengono conto del luogo e del secolo in cui si scrive) e nell’intenzione in cui viene scritta oppure interpretata (questo se parliamo della poesia performativa per esempio e che mi trova concorde con chi afferma che non vada stampata).
L’attenzione e il tempo da dedicare allo studio e alla sedimentazione di un testo sono ancora più necessari quando si parla di poesia.
D’altro canto lo hanno detto in tanti grandi prima di me: la poesia non deve mai chiudersi nel testo, cioè deve dare una dimensione altra che ciascuno va a riempire (con interrogativi più che con risposte, io auspico). Vero è, e ne ho discusso spesso con autori, che deve anche lasciare qualcosa altrimenti resta una lettura sterile che passa e va.
Solo la Storia saprà poi definire chi resta (per la società) e chi invece ha reso vuote le parole.
Già nel lontano 1998 qualcuno, Massimo Morasso, durante una conferenza all’università di Genova (io ne lessi la trascrizione su una rivista) diceva che era impossibile definire cosa è la poesia mentre si può in qualche modo intuire chi sia il poeta.
Ma, per rispondere alla tua domanda, secondo me sicuramente la Poesia non gli appartiene, ciascuno ha una sua poetica, una sua voce, un suo modo di stare sulla pagina ma la Poesia è un qualcosa che ci chiama e ci lega gli uni agli altri.
Io l’ho sempre concepita come una via di condivisione, di relazione tra la pagina, il sentire di chi legge (o ascolta) e ciò che ne scaturisce; ma sempre con la necessità di essere messa in centro tra più persone. Leggere e studiare fine a  stesso diventa secondo me limitante e infruttuoso. La poesia oggi dovrebbe essere confronto e stimolo. Ha a mio parere a che fare anche e soprattutto sulla dimensione sociale e civile dello scrivere. Ecco chi scrive ha una responsabilità e a volte nella nostra società impregnata di immagini e d’immagine ce ne dimentichiamo.
In fondo la lettura e l’ascolto si nutrono del silenzio in cui nascono.
Hai usato la parola traduttore, io preferisco che questo lemma si leghi sempre all’atto di tradurre vero e proprio e qui ti chiedo di poter citare Pierluigi Cappello che diceva che tradurre è come prendere una ragnatela in un angolo della casa e doverla spostare in un altro angolo senza che si rompa. Ovviamente parlava della traduzione dialettale ma secondo me si adatta bene all’idea del dover andare oltre il testo fisico della poesia.
Quindi io non parlerei di traduttore per chi scrive in italiano quanto di proiettore. Mi spiego, non si tratta di passare da una lingua a un’altra ma di saper comunicare anche una realtà altra, un altrove oltre i singoli tratti delle lettere e dei lemmi.
Ovviamente i buoni poeti ma anche gli scriventi in generale sanno e sono consapevoli che dentro di loro serbano e custodiscono tutte le letture che li hanno formati, quindi sì in qualche modo perpetuano anche chi ha scritto (e lasciato il segno) prima di loro. Si parla spesso degli spettri o fantasmi che ci abitano, a volte è più palese altre molto celata, ma la loro presenza c’è e in qualche modo qualcuno è anche riuscito a riconoscerli come padri o madri della propria scrittura (qui il riferimento va al volume di Tiziano Broggiato per Pellegrini editore, ma anche alla recente antologia dedicata alle poetesse del Novecento curata da Isabella Leardini per Vallecchi).

SERGIO: Grazie davvero Cristina. Questa tua risposta è talmente densa di richiami per me che dovrò anche io dilungarmi su alcuni punti essenziali.
Anzitutto, hai ben fatto a citare il silenzio. La relazione tra silenzio e parola, mai troppo esplorata, è per me il centro di ogni discorso sul poetare.
Ogni parola, ma anche ogni lemma, dal silenzio sorge e al silenzio ritorna” è un motto che ho fatto mio da tempo.
La sorgente silenziosa di ogni parola è scritta simbolicamente in tanti alfabeti antichi. Ad esempio quello ebraico ha come prima lettera la Alef, che è segno grafico afono, muto, direi quasi impronunciabile e che, a livello simbolico, rappresenta quel lato indicibile e immobile su cui ogni dire poggia e dal quale trova nutrimento.
In altre parole, nasciamo come poeti essenzialmente muti incapaci ab origine di contenere il Tutto nei limiti stretti delle nostre parole. E, tornando al tema del tempo, questo è molto connesso all’idea della relazione sempre fertile tra un silenzio che è eterno, immutabile, stabile e immobile e mai del tutto comprensibile, e la parola che è per sua stessa natura un divenire, una dinamica, un movimento che ha una nascita, un apice e una sua morte.
Chi come me abbraccia un’idea di poesia che sostanzialmente è ascolto poi non ignora il valore etico di un altro tipo di silenzio.
Ogni parola che scriviamo nasce da un atto di abbandono di tutte le altre parole che non abbiamo eletto perché lascino un segno sul foglio.
Ecco dunque che viene in gioco quindi un altro elemento legato al tempo e al silenzio.
Ogni nostra parola è sempre portatrice della memoria di ciò che non si è detto - per scelta, per intuizione e anche per caso - e il “buon poeta” in un certo senso sa tributare nella sua scrittura un attimo impercettibile di ricordo di ciò che non è stato nella scrittura.
Ed è in questo a mio avviso che la scrittura, ontologicamente, non può, come dici anche tu, rinchiudersi nei testi, perché è sempre sostenuta da ciò che di extratestuale abbiamo “sacrificato” sul suo altare.
Poi è per me centrale una banalissima constatazione. Nasciamo nel linguaggio e nel linguaggio ci trasformiamo. E il luogo di una nascita non è mai il neonato. Voglio dire che esiste un flusso millenario di voci, di parole dette, pronunciate, scritte che ci dona nascita sia come esseri umani che come poeti.
Tutto è stato già detto e le voci che arrivano al nostro orecchio - o ai nostri occhi in forma di immagine - vanno diffuse ovviamente filtrate dal nostro prisma interpretativo. Ma tale prisma è anch’esso figlio di una storia, non è creazione nostra individuale.
E proprio la tua immagine della ragnatela mi aiuta in questo scambio. Possiamo affinare le tecniche e le cautele per trasportare la ragnatela intatta altrove. Ma non siamo noi il ragno.
Il ragno è altrove in un non tempo e ci parla una lingua che comprendiamo solo in parte.
D’altronde nella mitologia della poesia questo era un dato più che consolidato. La poesia non apparteneva al poeta. Era dettata da Muse, Daimon, Divinità più o meno benevole, mai frutto della sola fantasia dell’autore. In questo era simile a ciò che rappresentava per il profeta la stessa profezia. Il profeta era - e credo anche il poeta - colui che trasmetteva ai destinatari messaggi di una divinità che certo non coincideva col suo Io (ancor meno col suo Ego).
Ecco io credo che poesia sia essenzialmente atto di spoliazione e abbandono e che nel vuoto che si crea in quella caduta di maschere posticce si crei lo spazio per l’ascolto delle voci dell’altrove che il poeta diffonde. Per questo rifuggo i possessivi vicino ai termini scrittura e poesia.
Certo la mia è una visione un po’ antica e legata a una sacralità (non per forza teistica) del gesto della scrittura. Una visione legata quindi al corpo.
E quindi vengo alla seconda domanda per te.
Il Sacro e l’Antico hanno ancora un posto nella poesia contemporanea per te? E qui intendo un posto centrale e generativo, non l’uso di quelle categorie come orpello o come termini per indicare una mera affezione col passato.
Il senso di questa domanda per me si rafforza con una semplice e triste constatazione in merito a tante scritture che fanno attualmente parlare di loro.
Ho l’impressione che buona parte della poesia contemporanea abbia perso quel filo di lino sottile che le collegava con un passato importante, che ne abbia talmente perso coscienza da non essere nemmeno più capace di rifiutarlo scientemente. Semplicemente, e tristemente, non posso non constatare che quel filo viene spesso ignorato, senza nemmeno il coraggio di spezzarlo per scelta.
Ecco, su questo vorrei avere il tuo autorevole parere.

CRISTINA: Parto da una constatazione non mia ma che nella sua semplicità è illuminante. Sono stata recentemente a uno speach di Vera Gheno nel quale ha recitato parte della partitura teatrale che uscirà nel suo prossimo libro Einaudi e in una parte per me di recupero di conoscenze scientifico-mammistiche ha detto “noi esseri umani veniamo al mondo e moriamo con la parola”. Sostanzialmente iniziamo a essere nel momento in cui abbiamo un nome e cessiamo di esistere nel momento in cui viene nominato il decesso. Quindi anche sociologicamente la nostra vita è parola, e a maggior ragione è parola ciò che l’intelletto e va a distillare. Come dici bene lo scrivere poetico è un epurare e secondo me un esaltare il linguaggio, voglio dire che se facessimo una disquisizione su un dipinto o una fotografia la poesia sarebbe il particolare che dona luce a una perla oppure la carta straccia che disturba la vista del passante. È l’idea di Bellezza, quella che ti fa rimanere in silenzio a contemplarla, è la ricerca del Bello, la tensione che sta dietro a ogni singola scelta umana. Da quando siamo nella pancia (e questo lo dicono le neuroscienze e gli studi sull’evoluzione) l’essere umano in quanto animale cerca di soddisfare i suoi istinti tramite il piacere. La suzione mi fa produrre serotonina e mi sento bene quindi ricerco quella sensazione. Credo che per chi si occupa di Arte (e qui allargo un po’ il cerchio perchè vale per tutte le arti, dalla musica alla grafica) la ricerca di espressione del Bello, ciò che mi provoca godimento a livello intellettivo sia la molla. A questo punto è ovvio che il Bello che ciascuno ricerca si sia formato nel corso del tempo attraverso l’esperienza che si è fatta di quell’arte, di chi prima ne ha tratto qualcosa che ci colpisce. E secondo me non è mai una visione di insieme, lo diventa in seconda battuta ma all’inizio è un dettaglio, qualcosa che ci richiama fortemente verso quella tale opera. Nel mio caso e nello specifico della poesia può essere un verso stupendo recitato durante un reading, quella sequenza di parole che fa brillare la mia mente e fa sí che poi la percezione di ciò che viene dopo sia cambiata.
In fin dei conti si tratta sempre di capire quanto si è permeabili a ciò che ci attraversa. Voglio dire, io so, oggi, di essere una gran privilegiata: sono nata nella parte “giusta” del mondo, ho la pelle chiara e sono una donna (quindi rientro nel codice binario che per i più è quello riconosciuto e accettato), ho la possibilità di definirmi, ho un lavoro e mi posso permettere di seguire le mie passioni. Più di metà del genere umano non può mettere in fila tutte queste cose.
Sono stata istruita e ho avuto la possibilità di confrontarmi con dei grandi Maestri e con ottimi interrogativi fin da adolescente perché la mia indole curiosa mi portava a cercare sempre nuove domande. Si può essere attraversati da tutto questo e non cambiare? Si può leggere un libro e sia che lo si ami sia che lo si trovi brutto non assorbire nulla da lui? Per me, per la mia esperienza no. E ho usato esperienza volutamente, perchè quel bagaglio di tradizioni e forme che chiamiamo cultura si deve toccare sulla propria pelle, deve ferirci in maniera irreversibile, formare una cicatrice che ci ricorda che abbiamo interiorizzato quella cosa. Quindi sì, chiunque lavori nel mondo della cultura ha in sé e tesse un filo con i significati delle epoche passate. Occorre però essere consapevoli delle proprie lacune e delle proprie ignoranze: io per prima ho dovuto formarmi su molte cose da autodidatta e ho dovuto anche capire che talvolta non si è pronti ad accogliere un testo, un autore, una voce semplicemente perché occorre l’esperienza che ti porti a quel testo a quella voce a quell’autore.
Esempio pratico, quando pubblicammo il volume “Magnificat” di Cristina Annino ero ai primi anni di attività e il volume vinse il Premio Montano. A Verona conobbi Annino e lei mi disse alcune cose che ho compreso solo qualche anno fa e andando a rileggere i testi finalmente li capii, cioè i suoi versi sono potuti finalmente scendere in profondità scavare un solco importante dentro di me. Prima, sapevo che erano versi potenti, che erano scritti magistralmente ma non erano diventati parte di me, della mia esperienza della parola.
Quando una cosa, una scrittura ti ha permeato, penetrato quanto più possibile, solo allora credo che un poeta possa decidere se tenere quella tradizione nel cassetto oppure smontarla per fare altro linguaggio. Un po’ come per i Lego: i pezzi sono quelli ma ciascuno può costruire un mondo diverso, non si scappa dagli incastri però.
Chi legge poesia secondo me si accorge abbastanza presto di quando una costruzione si basa su letture e ripiegamenti e quando invece è fine solo a una forma riconosciuta come sperimentale, di rottura, della tal linea ecc.
Poi c’è anche il discorso dei personaggi cioè molti intellettuali (e anche qui generalizzo) talvolta si perdono nell’immagine che hanno costruito intorno a loro dimenticandosi della centralità della parola e del dialogo. L’autoreferenzialismo e la mancanza di prospettiva temporale nel futuro, la non volontà di sostenersi o di mettersi in relazione con altre realtà sono il vero male della nostra società letteraria. E uso questa definizione un po’ se vuoi abusata, ma per contrapporla a quella di Comunità letteraria: la società per definizione è un insieme organizzato di individui atti a un fine comune; la comunità un insieme di persone unite tra loro da rapporti sociali linguistici ed etici.
La differenza è banale, ma sta tutta nella visione che sta dietro e all’oggetto. Nella società c’è solo il fine comune, nella comunità ci sono anche i rapporti e il lessico, se vogliamo un alfabeto che ciascuno va ad arricchire col suo contributo. Ed è qui che da semplici “spostatori di tele” si diventa ragni, per quel mm che si è donato perché anche gli altri possano aggiungere il loro mm alla tela.
Sottolineo che questo è valido tanto per chi scrive quanto per chi legge. La lettura solitaria e silenziosa è essenziale, ma non deve mai essere fine a se stessa. Mettendo in circolo quello che si è preso, ciò che quella lettura ha sbloccato in noi, le letture successive cui ha portato (ma può essere anche l’ascolto di una sinfonia o la visione di un film) si creano nuove strade e nuovi percorsi, talvolta anche nuovi modi di vedere la realtà o di andare oltre essa.
Ti aggiungo una cosa: io presto e mi faccio prestare libri da una manciata di persone super fidate e con le quali ho uno scambio quasi quotidiano di idee. Una di queste è un autore che stimo e apprezzo molto, Riccardo Olivieri. Ora lui sostiene e io abbraccio in toto questa visione che ogni volta che un libro viene letto da un lettore su quel volume ci siano in realtà almeno due libri. Ed è effettivamente così. Io li annoto, aggiungo foglietti con le cose che mi vengono in mente. Ho il ricordo nitido addirittura di una cosa buffa e bellissima insieme: proprio Olivieri mi prestò un libro di Marco Bellini edito da La Vita Felice e oltre alle note, nei risguardi trovai gli appunti di Riccardo su una poesia che poi entrò nel libro che pubblicò con puntoacapo. Quella stessa poesia è oggi dentro al suo ultimo per Passigli. Si potrebbe dire che quel filo ci abbia legati tutti, libri e persone.

SERGIO: Trovo molto interessante ciò che dici e soprattutto ho provato un piccolo brivido nel sentirti parlare della possibilità di essere ragni, fosse solo per quel millimetro in più che aggiungiamo alla storia della scrittura. E credo che il brivido mi sia stato causato da una cosa che richiama forte le mie radici ebraiche: l’idea di sedimentazione.
Io credo molto nella capacità della parola di sedimentare e appoggiarsi sulle infinite parole già dette nei millenni dall’uomo e di accogliere, come calcaree stalagmiti, quelle che verranno.
Per questo mi piace l’idea di spersonalizzazione della poesia, una sorta di rinuncia al nome che - come magnificamente dite tu e la Gheno - è la prima nostra nascita al mondo degli uomini, nel linguaggio. Dirsi particella di calcare, però, non deve essere confuso con un sterile esercizio di falsa modestia: al contrario.
È a mio avviso l’assunzione di un ruolo importante. È sapersi parte della stalagmite o delle cattedrali di stalagmiti che chiamiamo letteratura. E anche il tuo richiamo al bello mi ha dato commozione. Perché io credo che bello, sacro e abisso (indicibile) siano le componenti chimiche del carbonato di calcio che costituisce la cattedrale di stalagmiti che, ancora una volta, chiamiamo letteratura. E ci vuole tutta l’umidità - leggi protezione - di una grotta perché quel processo di sedimentazione e stratificazione possa aver luogo. Ecco, una cosa che forse abbiamo appena sfiorato, ma per me molto importante. La parola va protetta, curata e custodita e, perché possa germinare, va tenuta come il più prezioso dei doni nelle proprie mani per poco tempo, perché è solo a contatto con le parole altrui che diviene capace di esplicare la sua profonda funzione. Chi scrive - e ancora più chi legge - è sempre custode, sentinella della parola e della sua sacralità che non ha bisogno di nessun dio per esistere ma alla nostra innata esigenza d’ordine ed elevazione si richiama sempre.
Ma il tempo scorre e la serata volge al termine. Non ti farò altre domande ma vorrei che dicessi ciò che senti di dover dire a conclusione di un incontro sotto il pergolato che non dimenticherò mai e che vorrei si ripetesse ancora, e ancora. Grazie dal profondo.

CRISTINA: Ti dirò che abbiamo toccato tante cose e che tante altre meriterebbero di essere discusse, magari anche in più persone.
Credo e ho sempre creduto nella forza e nel potere delle parole. E nella grande arte della condivisione dei saperi. Credo nella lettura sociale (in circolo, facendosi domande) e nella critica per crescere ed evolversi. Credo che la differenza la facciano le persone con cui scegliamo di rapportarci.
Credo che mi piacerà ritrovarci.

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NOTIZIE BIOBIBLIOGRAFICHE


Cristina Daglio
(1984) laureata in Scienze Ambientali e Gestione del territorio; appassionata di Letteratura, dopo aver organizzato la Fiera di Editoria di Poesia (Pozzolo Formigaro 2006-2007 e Novi Ligure 2008) fonda nel 2008 Puntoacapo Editrice, realtà che da subito si definisce di approdo per la poesia, attenta al lavoro di promozione culturale.
Durante la pandemia del 2020 capisce l’importanza di una presenza costante e continua degli autori online lanciando la serie di appuntamenti noti come VoltiDiLibri nei quali propone anche chiacchierate e letture di autori Nazionali di altre case editrici.
Convinta da sempre che la Bellezza si crei dalle sinergie si impegna nella promozione della cultura anche al di fuori della realtà editoriale che rappresenta.
A fine 2022 diventa socia fondatrice de Le Cicale Operose di Livorno, per le quali riveste il ruolo di Consigliere, e sceglie le migliori proposte culturali da invitare nello spazio.
Al contempo con Alessandra Corbetta e Matteo Fantuzzi coordina una serie di incontri trasversali di sociologia e poesia presso lo Spazio Tadini di Milano.


Sergio Daniele Donati (Milano 1966)
Ha pubblicato per Divergenze edizioni il romanzo "Tutto tranne l'amore" (2023)
Ha pubblicato per Ensemble edizioni la silloge "Il canto della Moabita" (2021). 
Ha pubblicato per Mimesis edizioni (Collana dei Taccuini del Silenzio) il libro: "E mi coprii i volti al soffio del Silenzio" (2018). 
Fondatore caporedattore e curatore della pagina Le parole di Fedro, ivi propone alcuni percorsi nel linguaggio poetico e narrativo. Altre sue poesie sono state pubblicate più volte sul vari litblog.
Numerose sue poesie sono apparse su riviste cartacee e online e su quotidiani nazionali. 
Avvocato milanese si occupa di diritto commerciale e di tutela dei minori.
Studioso di meditazione ebraica ed estremo orientale, insegna cultura e meditazione ebraica in associazioni e scuole di formazione e tiene seminari sul valore simbolico dell'alfabeto ebraico.

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La seconda parte della conversazione con Cristina Daglio la trovate qui
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Commenti

  1. Bellissimo dire , da rileggere ancora e riflettere , grazie ad entrambi ❤️

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  2. Molto interessante. Grazie.

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  3. Adatto ad iniziare un convegno.itinerante è periodico. Sj studia sempre e per sempre

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    1. Verissimo, potrebbe essere un nuovo progetto de Le parole di Fedro estendere a più persone le occasioni per queste riflessioni. Ringrazio ancora Cristina Daglio per ciò che ha donato e lei per il commento.

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  4. La parola è profondità, lentezza, è crepa nel silenzio. Barbara Rabita

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    1. Grazie Barbara, sì è crepa...fessurazione

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