(Redazione) - Nota di lettura sulla silloge "La malagrazia" di Margherita Ingoglia (A&B editore, 2022)


Margherita Ingoglia ci incontra e sfida  - su questi verbi ci soffermeremo poi -  all'angolo tra due vie, né in piena luce, né in completa tenebra, con la sua nuova silloge La Malagrazia (A&B editore 2022), ed è un incontro che pretende - anche su questo verbo dovremmo soffermarci - il nostro cambiamento: da lettori di altrui parole a auto-lettori, da fruitori a auto-interroganti.

La capacità della poeta di tessere linee espressive che si situano tra generi molto diversi tra loro (passiamo dalle ballate lunghe alle poesie composte di pochi versi) è già la prima domanda cui l'autrice ci chiede, in modo diretto e senza possibilità di fuga, di rispondere: chi è il lettore nei confronti dell'opera? 
Il cambio di ritmo subitaneo, l'impossibilità di chi legge di attendersi alcunché nemmeno dagli elementi formali dell'opera, ci richiama infatti al ruolo di uno stupore bambino verso la parola che purtroppo si perde nella scrittura poetica sempre di più. Qui, invece, rimane motore vivo e sotteso all'intera opera.

Né al lettore è lasciato spazio per decifrare una specie di linguaggio Morse tra le diverse composizioni se si sofferma sul loro ritmo: breve, medio, lungo si alternano senza sequenza quasi ci volessero chiedere di abbandonare ogni pretesa di ritmo. 
Questo è il primo incontro e sfida che la poeta, la cui scrittura ha tratti sapienziali indiscutibili, ci invita a raccogliere. 

Ciò avviene a volte sotto forma di monito come nella composizione il cui testo sotto si riporta.

Non lasciatevi ingannare dalla bellezza. 
Essa è crudele, come una sottile lama di ghiaccio:
l'ascia fredda e seducente
che striscia, lascia traccia
uno sshh di rosso sangue.

I livelli di lettura di questa breve composizione  - è evidente -  sono molteplici, così come le domande che essa pone.
Di quale bellezza parla l'autrice? E perché il bello dovrebbe richiamare al taglio, alla seduzione del sangue versato? E non è forse possibile  - chi vi scrive lo crede nel profondo - che la più pericolosa delle seduzioni e bellezze malvage è quella connessa al rischio della parola?

La poeta ci parla qui di un'ascia che lascia tracce e in questo richiama al ruolo e al pericolo della scrittura, non solo a quello connesso alla bellezza di un femminile spesso vilipeso e oltraggiato da uno sguardo improprio -  e in questo ancora una volta ritroviamo la sfida al lettore - , come emerge in altre composizioni.

Hai  tua disposizione tutto il mio crudele rispetto,
taglialo, diluiscilo, fanne un budino
o lascialo in crema  nello stampo per farne biscotti e sapone,
poi servilo al tuo migliore nemico.

oppure

La mente è il primo luogo
d'ogni delicato buio e d'ogni celestiale luce.
Al limite, sulla striscia del dirupo
questa scatola magica sa come smascherare
dell'inferno il paradiso
e del paradiso il suo gemello strano.
E sopravvivere.

Margherita Ingoglia  conosce le formule e gli arcani, sa che non esiste grazia poetica che non passi dal riconoscimento della malagrazia della parola e dell'esistenza - anzi quindi dell'esistenza. 
La sua poesia è lenitiva e modificativa della coscienza del lettore, ma mai consolatoria. 
Anzi, ha sempre una sua fase urticante, ché la poeta sa che ogni nascita è figlia del taglio, della separazione, di quell'ascia che ci ricorda il nostro essere liquidi, sanguigni e soprattutto densi di spiritualità solo se dalla carne partiamo.

Se cercate una poesia col vestito buono della domenica, travestita di sete preziose sopra un corpo ammalato, quindi, non leggete Margherita Ingoglia.

Se invece della parola volete riconoscere la funzione di garza protettiva che non ignora la fatica e il dolore, se della parola volete scoprire la relazione tra la memoria del dolore e la sua funzione taumaturgica e, soprattutto, se dalla parola siete disposti a essere modificati nel profondo, allora quella di Margherita Ingoglia è una lettura che non potete perdere.
La sfida di una poeta di tali dimensioni e peso non può non ricevere risposta. O rispondete positivamente ed entrate in un campo non facile ma di sicura uscita nella grazia, attraverso la malagrazia, oppure ne rifiutate la parola. 
E io quella parola vi consiglio di viverla nel profondo, anche e soprattutto perché sa guarire pur senza negare il valore della ferita, anzi proprio perché non la nega.
 
Per la Redazione 
de Le parole di Fedro
Il caporedattore
Sergio Daniele Donati



stampa la pagina

Commenti