(Redazione) Specchi e labirinti - 10 - Tishà be Av e brandelli di Shoah

 

A cura di Paola Deplano

Tishà be Av è un giorno di lacerazione e di lutto, un giorno in cui il dolore del singolo si fonde con quello di un popolo. Un dolore ciclico, ripetuto. Un dolore che si rinnova, con diverse motivazioni, sempre nella stessa data. Difficile non vedere, in questo, un messaggio della Vita. Cos’hanno in comune, infatti, la doppia distruzione del Tempio e quella di Gerusalemme, le cacciate da Spagna e Inghilterra e la deportazione a Treblinka? Oltre al fatto di essere accadute tutte a Tishà be Av e di aver portato dolore e sconcerto in un intero popolo, questi avvenimenti insegnano che ad ogni tentativo di annientamento corrisponde, in modo eguale e contrario, una forza che apre nuovamente le porte alla vita. La resilienza dell’erba che, dopo essere calpestata, ritorna al suo posto, lieve e verde, come prima.
Quest’anno Tishà be Av è stato dal tramonto del 6 alle prime stelle del 7 agosto, non molto lontano da oggi. E pensando a perpetuare la memoria di chi non c’è più, vorrei parlare degli innocenti tra gli innocenti: i bimbi vittime della Shoah. Vorrei parlarne con delle poesie forse non molto conosciute, ma senz’altro molto forti e degne di dare testimonianza dell’infanzia profanata e del dolore di chi resta.
La prima poesia è dedicata a una bimba che si chiamava Sissel, come sua nonna e come una sua cuginetta, anche lei morta in un lager. Un nome meraviglioso, che in Yiddish significa “dolce”. L’autore è suo fratello, Daniel Vogelmann, che non l’ha mai conosciuta, essendo nato dopo la tragica morte di lei. È un testo semplice, forse neanche tanto canonicamente “poetico”, perché Vogelmann non è uno scrittore di professione, ma è il proprietario della casa editrice Giuntina, specializzata in tematiche ebraiche. È un testo semplice, dicevamo, ma trasmette il profondo valore dell’amore che oltrepassa qualsiasi crudeltà, qualsiasi lutto:

Come non sperare
nell’immortalità dell’anima?
Potrei incontrare finalmente
la mia sorellina Sissel,
volata in cielo prima che io nascessi.
Mi verrebbe incontro sorridendo
e mi direbbe dolcemente:
«Ah, tu sei Daniel». (1)

La seconda poesia è di Anna Maria Curci, docente di tedesco, poeta, traduttrice e critico letterario. Ella riscrive poeticamente le testimonianze di alcuni sopravvissuti, ascoltate durante un viaggio sul “treno della memoria” da lei intrapreso con gli alunni del liceo statale di Roma in cui insegna. Sami Modiano, Shlomo Venezia, Andra e Tatiana Bucci danno voce ai loro ricordi affinché nessuna vittima sia dimenticata. Particolarmente straziante l’accenno al piccolo Sergio, cuginetto delle Bucci, che nell’ansia di rivedere le mamma si autocandidò agli esperimenti mortali della casa-lager di Amburgo, dove fu torturato a morte a soli sei anni:

Birkenau, 24 ottobre 2012

Il vento non serpeggia, il vento attizza
voci ringhianti e pastori tedeschi.

La voce ferma e tremante di Sami
non pronuncia il nome, ma “links!” e “rechts!”,
spartiti per spiccare corpi e storie.

Al crematorio due, al lato opposto
del suo “Sonderkommando”, il suo ricordo:
dov’era, Shlomo, ai giorni, “Shekinah”?

Di fronte alla baracca dei bambini
Andra e Tatiana parlano di Sergio,
del passo avanti e l’orrore di Amburgo.

Non sediamo sui fiumi a Babilonia,
ma il nostro pianto è in piedi e scuote il vento. (2)

Il terzo bimbo non ha volto, né nome. È un simbolo, come il milite ignoto, e rappresenta tutti, proprio perché non è nessuno in particolare. Conosciamolo - e amiamolo - attraverso una criptica poesia di Edmond Jabès, tradotta da Antonio Prete:

Canzone dell'ultimo bambino ebreo
Per Édith Cohen

Mio padre è appeso a una stella
mia madre scorre sul fiume
mia madre risplende
mio padre non sente
nella notte che mi rinnega
nel giorno che mi annega.
La pietra è leggera.
Il pane somiglia a un uccello
e l’osservo volare.
C’è sangue sulle mie guance.
I miei denti cercano una bocca
una bocca che sia meno vuota
nella terra, nell’acqua, nel fuoco.
Il mondo è rosso.
Ogni grata è una lancia
galoppano i cavalieri morti galoppano senza sosta
nei miei sonni nei miei occhi.
Sul corpo devastato dell’antico giardino
fiorisce una rosa fiorisce una mano di rosa
ch’io più non stringerò.
I cavalieri della morte mi portano con sé.
Sono nato per amarli.

Chanson du dernier enfant juif
Pour Édith Cohen

Mon père est pendu à l’étoile,
ma mère glisse avec le fleuve,
ma mère luit
mon père est sourd,
dans la nuit qui me renie,
dans le jour qui me détruit.
La pierre est légère.
Le pain ressemble à l’oiseau
et je le regarde voler.
Le sang est sur mes joues.
Mes dents cherchent une buche moins vide
Dans la terre ou dans l’eau,
dans le feu.
Le monde est rouge.
Toutes les grilles sont des lances.
Les cavaliers morts galopent toujours
dans mon sommeil et dans mes yeux.
Sur le corps ravagé du jardin perdu
Fleurit une rose, fleurit une main
de rose que je ne serrerai plus.
Les cavaliers de la mort m’emportent.
Je suis né pour les aimer. (3)
______

NOTE

1 - Poesia pubblicata in appendice a Piccola autobiografia di mio padre, di Daniel Vogelmann, Giuntina, Firenze 2019, p.33
2 - Anna Maria Curci, Opera incerta, L’arcolaio, Forlimpopoli 2020, p.67.
3 - Poesia contenuta in Antonio Prete, L’ospitalità della lingua. Baudelaire e altri poeti, Piero Manni editore, Lecce 1996, pp. 172-174.
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Commenti

  1. Complimenti ,davvero una grande artista e letterata

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  2. Grande artista e letterata

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