Alcune riflessioni sullo "stato delle cose" in poesia di Mauro Ferrari
Un breve cappello introduttivo
“Che
fare?”
La poesia onesta e importante (termini banali ma che qui hanno senso) esiste e non è raro trovarla in vari cataloghi editoriali (a volte persino nei maggiori...), ma in un mondo in cui si scrivono migliaia di recensioni, si sfornano antologie più o meno “autorevoli”, si creano gruppi e si litiga sui social, non si riflette abbastanza (mai) di poetica: l’utilizzo di strumenti rapidi ed efficientissimi, nel bene e nel male alla portata di tutti, infatti, non sta producendo risultati apprezzabili sul fronte della poetica, parola che sembra bandita dalla discussione e dal confronto. Si resta a livello di ricerca individuale, di idiosincrasie espressive, o al massimo di gruppi che si riconoscono in un progetto organizzativo o editoriale.
Per
di più, la conoscenza approfondita e sincera della “situazione”
della poesia e delle nefandezze che la stanno rovinando (che
l’hanno già rovinata...)
è affidata soprattutto agli incontri amicali, alle confidenze, alle
comunicazioni private e ai bisbigli da salotto, mentre in troppi si
vantano di contratti che nemmeno Ken Follett, di vendite
“spettacolari”, riconoscimenti “prestigiosi”, traduzioni in
uzbeko e quant’altro.
Al
netto di vanità ed esibizionismi, occorre (ri)portare in primo piano
la riflessione sul fare poesia oggi.
Oppure... “la poesia è finita”. Davvero: stanno succedendo
troppe cose nel mondo per continuare a scrivere effusioni personali
in versi, o perfette laccatissime opere stilisticamente ineccepibili
ma nate morte. Ballare il valzer mentre sta arrivando l’iceberg è
forse un paragone banale, ma diciamo che parlare della primavera o
del proprio mal di pancia mentre siamo
sotto le bombe,
come ha scritto di recente un poeta, forse è più calzante.
Ma
innanzitutto...
È successo di nuovo: qualcuno ha osato scrivere “pelago”.
Certo,
in poesia non ci sono parole vietate o impossibili, ci mancherebbe:
persino quelle più trite possono essere usate, come provano Saba
(Amai)
o Caproni, per fare due nomi. Si può anche giocare con i vari
registri: basti accostare il Montale di Ossi
di seppia
con gli ultimi lavori. Però, appunto, il
faut être un poète
– e non entro nuovamente nella discussione su cosa questo voglia
dire. Un “pelago” buttato lì (“Sai, ieri sono andato al pelago
e mi sono abluzionato da mane all’occaso”) mi fa star male e mi
spinge a fare qualche riflessione.
Alla
base di tutto: sappiamo che un libro di poesie contemporaneo, a parte
sporadici casi e fatta la tara di millanterie varie e patetiche,
vende (vende,
sottolineo) pochissimo: da zero (statisticamente oltre il 90% dei
titoli) a pochissime centinaia di copie nei casi più fortunati e
rari; la scarsità delle vendite raramente compensa il costo globale
di un libro (banalmente: spese totali
dell’Editore diviso numero di titoli) il che già in sé provoca
evidenti storture. Ma vuol dire anche che moltissimi scriventi (tre
milioni, si dice, e comunque per circa 50.000 titoli annui) si
cimentano in una attività di cui sanno ben poco. Scrivono
esattamente come chi, una volta ogni tanto, va a correre mezz’ora
per puro diletto.
È
una pura constatazione e non c’è nulla di male, perché scrivere è
in sé un’attività divertente e nobile;
dobbiamo però chiederci, di fronte a numeri così imponenti, da dove
nasce questa spinta a esprimersi in modo più o meno creativo in chi,
alla fine, non è interessato alla poesia come
forma letteraria.
Probabilmente lo stesso discorso vale per ogni tipologia di
espressione creativa, ma la letteratura, a differenza delle altre
forme di arte, implica una semantica, cioè parole per le cose, la
verbalizzazione di un pensiero e persino di una idea di mondo1.
Aggiungo che leggere
poesia (cioè amare
la poesia) è altra cosa dallo scrivere versi, e vuol proprio dire
incontrare questa idea, mentre leggere degli stati d’animo di un
autore (che spesso oltretutto non si conosce), se la poesia latita, è
come ricevere una telefonata o una mail da un call
center
o da un estraneo che ti racconta i propri problemi.
Provo
quindi a categorizzare tre modalità di scrittura che si pongono al
di fuori da un progetto compiutamente
e consciamente
letterario: il Poetichese, il Sentimentalese e lo Sperimentalese; la
prima e la terza riguardano maggiormente lo stile, la seconda i temi.
Il
Poetichese
Qui
entra in scena il “pelago”: chissà perché, si pensa che alcune
parole posseggano un’aura poetica in sé, ereditata in modo
acritico e superficiale dalla tradizione o, meglio, da una idea molto
parziale della stessa. Questo implicherebbe, a
contrario,
che altre parole non siano decorose, per significato, registro o che
altro; che quindi non si possa parlare di “infilascarpe”, per
dirne una. Se in poesia esiste una cosa come il “progresso” (e
non ne sono per nulla sicuro), questo va inteso come acquisizione di
nuovi territori tematici e stilistici, implicando ad esempio (ed è
la lezione del Novecento), un abbassamento del registro fino al
lessico quotidiano, pur non rinnegando un uso sapiente
della letterarietà, cioè della tradizione che abbiamo ereditato. La
poesia è sempre figlia del proprio tempo, e solo così riesce ad
essere universale: c’è stato un tempo in cui “pelago” si
scriveva senza imbarazzo né distanziamento ironico. La poesia era
così, aveva questo linguaggio, stop – anche se la storia
letteraria e l’italianissima “questione della lingua” sono
anche quelle di una tensione continua fra stili e registri – e
basta scomodare Dante per cancellare qualunque petrarchismo degli
stenterelli.
Quindi:
non si tratta solo di “pelago”, “occaso” o parole così, ma
dell’applicazione pedissequa di un armamentario “poetico”
d’antan
(rime, troncamenti, aggettivi anteposti...) e di una retorica –
meglio, di un suo uso inappropriato – che rappresenta l’unico
collante dei testi, per di più esibito: il contrario di ciò che un
poeta dovrebbe fare. Va da sé che la sostanza dell’espressione, su
cui queste rimasticature scolastiche risaltano come amanite falloidi,
ha un respiro creativo limitato e una novità di visione nulla.
Per
chiarire con un esempio: Giancarlo Pontiggia, che tra i contemporanei
è uno dei non molti ad avere una chiara consapevolezza di cosa sia
un verso e di quali forze vi si agitino, riesce ad usare una gamma di
registri e stili spesso alti, con strutture sintattiche che si
trovano di rado nella poesia odierna, ma senza suonare
pretenziosamente e rovinosamente aulico:
E
t’immoti, nel tuo ultimo qui
come
nel primo, ti incateni
agli
stupefacenti velami del mondo [...] (Il
moto delle cose,
p. 31)
“Immoti”,
“velami”... questi lemmi non sono cascami inerti o esibizioni di
competenza (e comunque l’”ultimo qui” apre baratri di
riflessione...) ma innesti, preziosi fin che si vuole però
funzionali a creare una lingua personalissima, una idea di mondo in
contrasto con una certa contemporaneità, proprio come emerge dai
temi, dal “contenuto” se vogliamo. E con una coerenza e coesione
dei vari livelli di significante e significato che è frutto di
lavoro e riflessione. O, anche, si vedano questi tre versi:
Scendi,
per vie
umide,
scure, dove
anche
il cielo è ombra [...] (Il
moto delle cose,
p. 99)
Come
non rendersi conto, pur in una sintassi minimale, in un verso
brevissimo e franto da enjambement che rendono un’idea di
precarietà, di un calibrato attraversamento espressivo di Montale
(“Ho sceso...”)?
Al
contrario di chi usa un Poetichese d’accatto, altri poi utilizzano
un linguaggio piatto e convenzionale, diciamo prosastico (senza
offendere i prosatori), e che rimanda per
conseguenza
(si veda l’ipotesi Sapir-Whorf) a idee e visioni del mondo banali:
forse per scelta, forse per incapacità espressiva, sulla pagina non
va nulla di originale
e sentito
ma “ciò che tutti pensano”, in un linguaggio in cui le marche
stilistiche tipiche della poesia diventano labili ma senza una
progettualità precisa; che siano versi ragionanti, descrittivi o
narrativi non importa, perché non si va “verso la prosa”, ma si
fa (cattiva) prosa e basta, andando a capo libenter.
Prendo
al riguardo qualche verso incontrato per pura sfortuna, appena
rimaneggiato per motivi comprensibili, ma non migliorato né,
tantomeno, peggiorato (opera difficilissima, peraltro):
L’estate
è il sorriso della stagione calda
il
rigoglio di ogni cosa,
sparge
sulla terra colori e luce,
regala
gioia e speranza nel domani.
Qui
l’autore... non dice nulla, descrive qualcosa che tutti sanno;
l’ultimo verso è oltretutto molto opinabile, né ci viene detto,
qui o nel seguito, come e perché; e tralascio il ritmo. Dobbiamo
spendere quindici euro per sentirci dire che in estate fa caldo? Per
queste annotazioni non c’è bisogno di “poesia”. Né tantomeno,
in una eventuale fase successiva da paventare, di abbattere alberi
innocenti...
Ciò
che importa è che il poeta sappia bene cosa sta facendo: potrei
prendere a
contrario
ad esempio Umberto Fiori, ma forse è utile estremizzare il punto e
scegliere Claudio Damiani:
Albio
è il piccolo noce che è a sinistra
della strada salendo dalla
casa
al cancello. Passando stamattina
l’ho guardato e ho
veduto che aveva
fatto delle nocette, a coppie, già
grandine,
verdi lucide, un po’ rade,
non tante ma bellissime
o
anche:
Gli
ippopotami dolci che nell’acqua
erano tutti immersi (si
vedeva
solo la punta della schiena) amore
te li ricordi? Oh
come erano teneri
e dolci.
Ammetto
che questa poesia ha i suoi detrattori, che non vi vedono una lezione
imbevuta di poesia classica, di equilibrio, ricerca del tono umile e
annullamento di ogni esibizione retorica; infine, di sorpresa per il
mondo minimo della natura e della vita. Basta invece leggere una sola
raccolta di Damiani (io suggerisco Eroi)
per cogliere una poetica originale e di assoluta coerenza, su cui si
potrà anche dissentire a livello di poetica (ecco la parola!), ma
sul cui valore in sé non si può dubitare.
Il
Sentimentalese
Certa
“poesia”, o meglio lo scrivere andando a capo, è una modalità
di effusione emotiva che permea la nostra società e che si esplica
come visto sia imitando la poesia canonica che cercando l’assoluta
trasparenza in nome della sincerità e dell’onestà.
“Sono un uomo semplice, alla buona, io [...] dico le cose che
sapete già” diceva Antonio... già, ma leggendo il suo monologo
nel Julius
Caesar
shakespeariano capiamo la grande e ambigua retorica che invece sta
applicando. Appunto: anche per spacciarsi per uno che scrive alla
buona
occorre avere gli strumenti. La semplicità va conquistata, è un
punto di arrivo dopo che il poeta vero ha eliminato tutto il ciarpame
retorico e banale per far risplendere quella differenza,
cioè quella defamiliarizzazione su cui si basa la visione poetica.
Il
nostro mondo non è certo incline a lasciare facilmente spazio alla
riflessione, all’otium
letterario, a quel vagabondare della mente che spesso produce (più
che una serrata riflessione e uno studio matto e disperatissimo) la
poesia: occorre lottare per conquistare (nell’ordine) qualche
momento di lettura, di riflessione e di scrittura. Se manca il
carburante, si scriverà cercando solo dentro di sé gli stimoli, che
saranno più emotivi e sentimentali che intellettuali; mancherà
quell’aureo equilibrio fra mente e corpo, fra ragione e sentimento
che crea l’arte; si ripeteranno le solite buone cose (di pessimo
gusto) che non sono di alcun interesse per il lettore di poesia, il
quale ricerca appunto... la poesia. E andando alla ricerca di un
ipotetico lettore di poesia non interessato alla poesia che... non
esiste.
Nel
Sentimentalese vediamo all’opera una vera e propria “tecnologia
del sé” (Deleuze), che nell’urgenza immediata di dire
sostituisce il confessore, l’amico, la cerchia dei confidenti, ciò
che insomma fa la società. Pene d’amore, sentimento del tempo,
notazioni di cronaca, di politica e quant’altro, vengono esibiti
(di nuovo!) alla ricerca dell’appoggio morale di un lettore che
semplicemente non esiste; oppure sono trascritti sulla pagina
unicamente come sfogo taumaturgico.
Ripeto
che questo è del tutto lecito e anzi la pratica della scrittura,
secondo il mio parere, andrebbe incoraggiata – al di fuori però di
un progetto letterario che non le compete.
È
interessante al riguardo l’annotazione di Roberto Serpieri e Sandra
Vatrella, in Soggettivazioni
social. Le tecnologie del sé nella società del controllo
(Sociologie,
Vol. II, n. 1, 2021, pp. 19-33): «Quindi, l’ipotesi qui presentata
ritiene che nei social
network
– da intendersi come forma di evoluzione dei mass-media e di
configurazione dell’opinione pubblica – sia possibile
rintracciare alcune delle funzioni svolte dalle tecniche del sé».
Questo spiega anche il successo dei social come megafono per le più
varie e sconclusionate “scritture poetiche”: poesia + social,
ecco un antidoto contro la società odierna! Chi potrebbe scagliare
la prima pietra?
Spesso
però, è proprio questo desiderio
di dire
che rende sordi alla banalità del dettato e alla cacofonia:
E
riempIRE d’amORE
il
cuORE del lettORE
per
fargli gustARE il sapORE
di
un dolce amARE
da
donARE
Difficile
fare peggio...
Lo
Sperimentalese
All’opposto,
almeno apparentemente, non pochi si lanciano nel campo (minato) della
sperimentazione senza avere una chiara e personale idea di cosa
sperimentare, come e soprattutto perché. È ovvio che qualunque
poeta vada sempre alla ricerca di originalità, efficacia e
precisione ed è anche palese che certa sperimentazione ha fatto il
suo tempo (e i suoi danni: non è questo lo spazio per una analisi).
A
fronte di quanti, attrezzati criticamente, varcano una linea (mai
fissata in verità) che apre al mondo dell’opaco (spesso
incomunicabile), non è raro leggere cose così:
La
luce dell’urlo
grandina
presenza
Qui
la mente saltabecca (inutilmente) da una metafora all’altra alla
ricerca di qualcosa da afferrare. L’”urlo” possiede una “luce”?
E questa “grandina”? E “grandina” una “presenza”? C’è
un senso? Il poeta vuole mostrarci
e farci
comprendere
attraverso la meraviglia
qualcosa a cui non avevamo pensato, magari alla portata dei nostri
sensi e dell’intelletto, ma mai visto in quell’ottica?
Altri
ancora propongono pervicacemente una sorta di serissimo ludus,
con pagine costellate di grassetti, corsivi, sottolineature, segni
vari, immagini e quant’altro. Soprattutto, però, sono pagine
costellate di vuoto, anche qui al netto dei pochissimi che sanno bene
cosa fanno e compiono un percorso personale, che si può o meno
condividere ma che possiede una propria logica e coerenza.
*
L’obbiettivo
è dire (in modo personale, nuovo ma intriso di tradizione) ciò che
nasce dall’hic
et nunc
ma che diventa una realtà umana universale. Solo così un testo si
gioca le (non troppe) carte di resistere al tempo. Che poi l’onesto
e umile desiderio di canonizzazione (entrare a far parte dei “poeti
di cui ci si ricorda”) si scontri con l’inconsistenza di un
canone contemporaneo che sta letteralmente svanendo fa piuttosto
parte del dramma (se non della tragedia) della cultura odierna, e
soprattutto della poesia.
Considerando
anche la deriva di ciò che oggi sono l’arte e una cultura,
trasformate in spettacolo trash
o asservite a un mercato (anche quello dell’arte) che esalta un
consumismo prêt
à jeter,
almeno la poesia nel suo splendido e malinconico isolamento mostra in
proporzione meno cedimenti: non saranno certo le letture condite da
apericena o flautista a trasformare una seria performance culturale
in uno spettacolo, o certe raccolte di similpoesia evanescente a dare
risultati di vendita tali da smuovere la situazione. Anzi, ogni
raccolta di bassa qualità che, forte della propria debolezza, appaia
facile da digerire e appetibile per tutti (ma tutti chi?) non fa che
accelerare la crisi; specie se davvero ottiene qualche risultato di
“critica (ahi) e pubblico”, se ha insomma un imprimatur
di ufficialità (“Questa è la poesia”). Vogliamo infatti
riflettere sulla contraddizione insita nell’apprezzamento di chi,
aprendo un tale libro dirà “Ah, questa è poesia oggi? Beh, mi
piace. Dice proprio cose comprensibili, anzi dice quello che penso io
e che pensano tutti.” Sembra una cosa positiva, ma attenzione:
stiamo presentando a un nuovo
lettore di poesia
(qualunque sia la sua reale formazione) una minestrina riscaldata e
insipida, dicendogli più o meno esplicitamente che è
poesia.
Abbiamo davvero fatto un passo avanti, o abbiamo solo ingigantito il
problema della mancanza di pubblico e di attenzione?
Sembra
un discorso conservatore, ma se il futuro della cultura va verso
l’abbassamento del gusto e la spettacolarizzazione – insomma il
citato trash
– smettiamo pure di scrivere. Cosa che poi faremo, a ruota, con le
altre arti.
Chiudo
con le sagge parole di Basil Bunting, che si definì “poeta minore,
non troppo disonesto”:
Chi
si dice poeta non osi rifiutarsi
di
camminare tra i falsi, nulla per rendere vera
la
missione imposta, spregiato
da
parassiti, ciarlatani e mantenuti,
tradito
e incarcerato, ripulito dalle puttane,
chiedendo
ai conoscenti i soldi per cibo e tabacco.
In
segreto, solitario, una spia, lui valuta [...]2
____
NOTE
1
Anzi, riflettendo un po’ la letteratura si colloca al centro di una
progressione ideale che parte dall’assoluta astrazione della danza
(Yeats: “come distinguere il danzatore dalla danza?”) si sviluppa
con la musica (nessuna semantica), la letteratura (semantica ma non
materia) per giungere alla pittura e infine alla scultura (materia
solida, tridimensionale). Ma, appunto, la semantica è propria della
sola letteratura, i cui praticanti hanno quindi la responsabilità di
sapere
cosa dicono,
come e soprattutto (si badi) perché.
2
Da Basil Bunting, Briggflatts,
in corso di pubblicazione presso puntoacapo 2025, con mia traduzione.
____
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Mauro
Ferrari (Novi Ligure 1959) è direttore editoriale di puntoacapo
Editrice. Ha pubblicato le raccolte poetiche: Forme
(Genesi, Torino 1989); Al
fondo delle cose (Novi 1996);
Nel crescere del tempo
(con l’artista Marco Jaccond, I quaderni del circolo degli artisti,
Faenza 2003); Il bene della
vista (Novi 2006, che
raccoglie anche la precedente plaquette); Il
libro del male e del bene
(antologia ragionata, puntoacapo 2016); Vedere
al buio (ivi 2017); La
spira. Poemetto (ivi 2019);
Seracchi e morene
(Passigli, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Premio CalabriaVeneto,
finalista al Premio Pascoli e al Premio I Murazzi). Della sua poesia
si sono interessati molti critici, e la rivista Atelier
gli ha dedicato una
monografia. È incluso nella monografia sulla poesia italiana
contemporanea (n. 110) della rivista francese Po&sie
ed è inserito nell’Atlante
dei Poeti
di Ossigeno nascente
dell’Università di Bologna.
Ha
inoltre pubblicato una serie di saggi di poetica, Poesia
come gesto. Appunti di poetica,
Novi 1999), ora raccolti in Civiltà
della poesia (puntoacapo
2008).
In
prosa ha pubblicato la silloge di racconti Creature
del buio e del silenzio (puntoacapo
2012) e Ora e sempre,
rivisitazione in chiave scettica di episodi delle Scritture (Robin
2025).
Ha
fondato e diretto fino al 2007 la rivista letteraria La
clessidra ed è stato
redattore delle riviste margo
e L’altra Europa
(Costantino Marco editore); ha collaborato a diversi Annuari, tra cui
l’Annuario Castelvecchi, dirigendo i sette numeri dell’Almanacco
Punto di poesia (puntoacapo).
Attualmente dirige con Cristina Daglio il sito
www.almanaccopunto.com,
sua evoluzione.
Ha
partecipato a molti lavori antologici di poesia e saggistica e
collabora regolarmente a diversi siti e riviste con testi, recensioni
e riflessioni. Come anglista ha pubblicato saggi e traduzioni da vari
poeti contemporanei e ha tradotto il poemetto di Basil Bunting
Briggflatts (puntoacapo
2025).
È
membro della Giuria dei Premi “Guido Gozzano”, “Lago Gerundo”,
“Le Occasioni” e “S. Quasimodo”; è stato direttore culturale
della Biennale di Poesia di Alessandria ed è ora Presidente della
Biennale di Poesia fra le arti (BIPA).
Seracchi
e morene è considerato dal
sito Laboratori critici uno dei tre libri del 2025; la rivista
Atelier
gli ha dedicato un numero monografico; sul n. 2 dell’Anello
critico (aprile 2025) è
presente un saggio sulla sua poesia e Il
sarto di Ulm n. 22 (aprile
2025) ospita vari saggi sul suo lavoro poetico e critico.
Commenti
Posta un commento