(Redazione) - Fisiologia dei significanti in poesia - 07 - Poesia tra Greifen e Zeigen
di Giansalvo Pio Fortunato
PARTE
I
Il richiamo ad una coscienza della poesia pare avere linearmente la ricetta di una precettistica etico-deontologica che, onestamente, poco le si addice. Così come, pari merito, inscriversi entro una specifica categorizzazione del fare poesia è esercizio non solo astruso, ma anche altamente dequalificante. Si tratta – per intenderci – di un tradimento identitario, di una mortificazione rimutuata perennemente: è, senza dubbio, lo sfregio di tutte le linee, di tutte le tendenze massimaliste che sistematizzano un rigore preconfezionato del prodotto poetico da esportazione. Eppure, in questa apertura ad una chiusura contro ogni classificazione paradigmatica, si oppongono le mie stesse conclusioni: Non poeta è. Poeta è.Il vero problema sta nell’insopportabilità assoluta di ogni atteggiamento descrittivo della poesia, di ogni analitica genealogica che punti non alla riesumazione del corpo poetico, quanto al suo dischiudersi, al suo venire alla luce. Esiste, purtroppo, un’irrefrenabile sodalizio con le istanze sintomatologiche del povero soldato Schneider [1] nella poesia contemporanea: essa non sa trascendersi, non sa iniziare quel processo complessivo di Zeigen che la faccia designare specificamente, aldilà dell’a-posteriori rispetto all’atto poetico. Si indaga l’atto poetico solo attraverso la poesia, togliendo mano da ogni indagine sull’attività poetica: si concretizza la poesia, astraendola terribilmente. Quando, alla fin fine, per essere totalmente concretata, basterebbe essere trascesa, in un movimento esemplificato, ma non correlato al prodotto poetico finalistico. Basterebbe eliminare ogni analisi teleologica. Basterebbe riflettere [2] lo sguardo, possedere il verso anche quando non lo si vuole fare. Basterebbe incarnare una volta e per tutte l’atto poetico, privando di a-posteriorismo la riflessione sulla poesia. Affermando, dunque, a chiare lettere che se la poesia è poesia, lo è in quanto atto fisiologico, in quanto carnificazione e incorporazione di un atto del corpo.In tali termini, allora, la richiesta di una poesia di coscienza non è la richiesta di una ricetta deontologica perfetta: è – lo ribadisco – lo Zeigen; la capacità di compiere gesti astratti e privati del contesto imminente che richieda la necessità dell’atto poetico. È puntare il dito verso la poesia, intenzionandola, stavolta. È richiedere alla poesia il suo essere poesia; non la prensione dell’oggetto poetico per mezzo della consapevolezza già data del far poesia. Perché, alla fin fine, la tematizzazione dell’atto poetico non è la stessa tematizzazione che si applica al corpo? Quando si fa poesia è evidente che si sia rivolti al verso, alla sollecitazione pratica della presenza irrefrenabile di quell’ispirazione che attualizza la necessità di un complesso testuale unico e necessario. Ed in quei momenti, naturalmente, a prendere il sopravvento è il Greifen, il concretarsi del momento complessivo di espressione poetica, al punto da ritenere l’ispirazione poetica ingiustificata ed ingiustificabile. Ma è davvero ingiustificata ed ingiustificabile? È davvero irrazionale o illogica?
Andrebbe,
senza alcun dubbio, chiarito cosa si intenda per irrazionale ed
illogico. O – meglio ancora – cosa i poeti, gente bizzarra e
creativa, credono significhino irrazionale ed illogico. Per il
prosieguo, tuttavia, di questa analisi, non è necessario soffermarsi
su questi due termini che, in quanto tali, segnano anche il momento
di un percorso analitico ormai del tutto superato. Piuttosto,
andrebbe precisato in quali termini il Greifen
corporeo
si intersechi con il Greifen
poetico.
La ragione primaria è, a mio parere, anche abbastanza banale: l’atto
poetico è un atto corporeo, per cui, senza sprecare nemmeno troppe
dimostrazioni o riconduzioni logiche, il Greifen
poetico
è espressione di un Greifen
corporeo
[3]. Credo sia molto più interessante, invece, precisare perché si
possa parlare di un Greifen
poetico.
Perché il modo di prensione del corpo possa essere ricondotto al
modo di prensione della poesia. Credo sia molto più interessante
soffermarsi su una prensione in poesia e su una prensione che sia
naturalmente procreativa. È così che si innesta sistematicamente il
superamento rispetto alla blanda e diffusa concezione
dell’ispirazione. E questa vitale azione di superamento, ha come
esito una semplice conclusione: la
poesia è un gesto.
Dirò di più: la
poesia è un gesto corporeo.
Si
sta qui ponendo l’accento su un dinamismo che già osserva sotto
altra specie quelle care forme di intellighenzia
da
applicare alla poesia. Non basta, per chiarirci, ritenere che la
poesia sia un atto intellettivo. Anche questo assunto risulterebbe
non solo incompleto, ma vuoto e di vuoto indeterminato. Se la
parola colma un vuoto determinato [4],
l’intellighenzia
è
vuoto predeterminato, che è invecchiato bene ed è stato riproposto
entro nuove significazioni. Il che, come pare ovvio, implica
conseguenze nuove, esiti nuovi, che non precludono la scientificità
dell’atto poetico, il suo trascendimento, la sua tematizzazione, il
raggiungimento della guarigione dalla sindrome del povero Schneider.
Perché Schneider, in fondo, aveva subito un’irreversibile lesione.
La poesia, invece, sta intagliando la sua lesione, reversibilmente –
irreversibilmente.
Su
questa scorta, dunque, segniamo il legame tra il Greifen
e
l’atto poetico, ponendo in luce, soprattutto ed anzitutto, il
legame tra l’atto poetico ed il corpo. Perché, seppur in una
chiave paradossale, l’obiettivo celato o manifestamente espresso
della rubrica da me curata insiste non solo nel legame tra
significazione
e
poesia,
ma soprattutto nella giunzione irreversibile che si inscrive tra
naturalità
e
poesia.
Tale giunzione, ovviamente, è alimenta dalla dicitura fisiologica,
che
non solo è la chiara indicazione di un’interdipendenza tra la
significazione e la poesia, tra l’ordinarietà dell’atto poetico
e l’espressione poetica; ma rappresenta soprattutto la corporeità
inevitabile che cardina la poesia. Il verso, dunque, è un gesto
corporeo – di una gestualità certamente articolata e validamente
cognitiva – che si inserisce nella corporeità del pensiero e del
dischiudersi complessivo di una coscienza al mondo. È un rapporto,
dunque, che esautora ogni fecondazione di un’interiorità
totalmente recondita e conchiusa in se stessa e questo, come già
sottolineato nel precedente articolo [5], va ad iscriversi,
anzitutto, nell’assenza di una soggettività forte, che ora, seppur
su una sponda poetica, va adeguatamente argomentata. Si è
inter-soggetti, nel dettaglio, rispetto al cosiddetto mondo
e
si è inter-soggetti rispetto all’unità stessa della lingua e, con
essa, della poesia.
Quando
si stritola, infatti, la mondanità, non lo si fa per una certa dose
di anti-metafisica o di miracolismo salvifico. Lo si fa, piuttosto,
per la risoluzione o rescissione di ogni barriera separatoria tra il
soggetto ed il mondo, o tra il soggetto e l’oggetto. Il darsi del
soggetto è entro il darsi dell’oggetto, così come il darsi
dell’oggetto è entro il darsi dell’oggetto. Ed è anzitutto
questa reciprocità a far sfuggire nettamente il senso ed il
significato di una certa calibratura che punti a dividere, ad
ostracizzare. Nello specifico, dunque, è nel darsi che si alimenta
il dischiudersi di un mondo che si abbevera dal corpo e che fa del
corpo la sua radice di partenza. In questo modo – va precisato –
non si scade nel solipsismo, quanto ci si muove in un’evidenza
carnale. Se è, infatti, la sensorialità che ci relaziona al mondo,
se è il corpo che abita procreando il mondo, gli stessi attributi di
esistenza del mondo sono dati da quel corpo. Questo non significa che
il mondo è a causato dal corpo, per cui il corpo sia il nuovo dio
creatore. Significa, piuttosto, che l’esistenza del mondo, perchè
contingenza specifica, è riconosciuta solo attraverso il corpo ed il
suo stato di esistenza sia ascrivibile solo in virtù della presa del
corpo. Se, infatti, la
lampada è sul comò,
la lampada è sul comò in virtù dell’esistenza di un corpo che ne
percepisce il suo essere sul comò. In tal modo, allora, il corpo ne
afferma l’esistenza, ossia ne riconosce il grado di validità
relativa che si ricostruisce attorno a se stesso su / verso
quell’oggetto. Tale astruso congegno di ricavo dell’esistenza
strizza l’occhio, da un punto di vista teoretico, ad un’ontologia
della cosa che, tuttavia, non è elemento di questa discussione. Ma,
soprattutto, enuclea un senso inevitabile: il corpo è in grado di
affermare ogni volta un mondo e di renderlo un mondo, di istituirne
relazioni, di procacciarne validità ed esperienze. La stessa stanza
nella quale mi colloco esiste in virtù del mio corpo e la sua stessa
constatazione di esistenza è valida in virtù del mio corpo.
Alla
luce di questa ammessa procreazione corporale sorge, tuttavia,
spontaneo un dubbio: come si può rinnegare uno stadio di solipsismo,
se è il corpo che afferma l’esistenza di tutte le cose? È qui,
naturalmente, che si manovra l’assenza di solipsismo e la nascita
complessiva di un’inter-soggettività. Se le cose non mi si
dessero, io non potrei in alcun modo affermarne l’esistenza. Il mio
corpo, dunque, è procreativo limitatamente a ciò che gli si dà.
Non può affermare l’esistenza rispetto a ciò che non gli si dà.
Non posso, dunque, stabilire l’esistenza di una lampada senza che
il mio corpo la intenzioni; senza che io mio muova percettivamente
verso la lampada. Se, infatti, sul comò la lampada non c’è, non
posso stabilirne l’esistenza entro il mio mondo, né tantomeno sul
comò. Se non percepisco l’oggetto e questo oggetto mi attrae a sé,
io non posso in alcun modo affermarne l’esistenza entro il mondo.
Sta nello stesso gioco dell’inerenza: essendo calati in un vissuto,
l’affermazione di questo vissuto, che è specifico, sta nel corpo
che afferma quel mondo e nel darsi di quello specifico mondo al mio
corpo. È naturale, allora, che quando si racconta una vicenda
vissuta non si fa riferimento ad ogni oggetto possibile, ma si fa
riferimento ai soli oggetti esistenti che ci sono dati e che noi
abbiamo percepito esistenti-ci. Se così non fosse, si sforerebbe in
una certa metafisica cognitivista che, al sol pensiero, decreterebbe
l’esistenza di ogni cosa e ci radicherebbe al punto di partenza:
negheremmo che il corpo sia maturante l’esistenza del mondo.
Basterebbe, alla fin fine, la sola pura forza cognitiva e tutto
sarebbe. Ciò che a questo punto ci interessa, allora, è in che modo
il corpo agisce rispetto al mondo: è un semplice constatante o è un
formulatore di mondi? E, soprattutto, che senso ha tale
ricostruzione, se la poesia agisce nel potenziale ed in ciò che non
esiste? La poesia agisce come il corpo?
Procediamo
con ordine. Dopo aver scartato la linearità trascendente di
un’esistenza a-priori, dopo aver rifiutato ogni cognitivismo,
ritorniamo alla percezione ed al corpo. Quella che avviene, nel
dettaglio, tra il corpo ed il mondo non è una trasmissione
traslucida, non è una semplice catena di passaggio, ma è una
trasmissione sensoriale, una trasduzione,
che argomenta ancora di più a favore dell’inter-soggettività.
Affinché la sensazione abbia luogo , è opportuno che vi sia una
sollecitazione, un darsi che la generi. Questo darsi, ovviamente, è
determinato dall’oggetto che è lì e che, essendo lì, si
dischiude, si rende presente. Il suo rendersi presente, in
particolare, non è un rendersi presente puro ed incontaminato. È,
piuttosto, un rendersi presente procreativo. Un rendersi presente
secondo il corpo. La stessa sensazione che, in una chiave empirista,
è pura impressione, in realtà è alimentata da una modificazione
anzitutto sensoriale. La ricezione materiale, potremmo dire, prevede
una concomitanza complessiva di azioni modificative già nei siti
ricettivi. A cui, nel dettaglio, fa seguito una trasduzione nervosa
che è di natura ben diversa rispetto a quella base ricettiva che
abbiamo appena menzionato, seppur è da essa causata. Questo cosa
implica? Implica che l’oggetto, dandosi, è colto dal corpo e per
il corpo. Implica che questo cogliere del corpo avviene attraverso un
corpo operativo, attraverso un corpo denso che, già nei suoi sensi,
esercita materialmente delle modificazioni, procrea la sensazione.
A
questo, materialmente, va aggiunto che ad ogni atto percettivo non
concorrono i soli sensi e che la presenza dell’oggetto – il suo
darsi – è colto per coscienza. Sta nel criterio stesso del
rendersi presente, nella formazione della sua stessa presenza, che
interviene la coscienza. L’intervento della coscienza, nel
dettaglio, non è un intervento ex
machina o
di strapotere, ma un intervento calibrato, un intervento del tutto
naturale, per il quale, in ogni atto percettivo, la coscienza
avvalora quello stesso atto percettivo e lo rende, per l’appunto,
percettivo. Non si vuole, in tal senso, essere solo portatori di
quella massima di una percezione
quale pensiero della percezione [6].
Si vuole, in realtà, compiere un passo decisivo che faccia
finalmente comprendere il perché di questa presunta digressione sul
corpo, a svantaggio di una riflessione poetica. Ritenere, infatti,
che la percezione sia pensiero della percezione significa amalgamare
corpo e coscienza, rendendo corporale la coscienza e facendo sì che
ogni atto di coscienza divenga atto di un corpo che si dischiude, al
punto che il senso di questo dischiudersi sia del tutto immediato,
proprio perché mediato per principio. Ciò che si vuole rimarcare,
sorvolando l’ortodossia ed il dettagliato di ogni processualismo
fenomenologico, è che il corpo discrimina già da principio ciò da
cui è attratto, ciò verso cui si intenziona, ciò che nomina come
esistente e percepisce in quanto esistente-gli. La percezione,
infatti, è la suprema modalità relazionale direzionata che, se da
un lato non può essere se non in virtù del darsi degli oggetti,
dall’altro ammette continuamente un’opacità che non fa recepire
tutte le cose, ma i soli oggetti, ossia le sole cose verso cui il
corpo si muove. Se la percezione fosse, infatti, un solo fenomeno
corporale non solo ricadremmo, epistemicamente, in un dettato
empirista che fa soggiacere l’azione del corpo all’infinità dei
termini sensoriali possibili, ma ci troveremmo, soprattutto, dinanzi
ad una soggettività debole, incapace di costruire la sua propria
esistenza, edificando il proprio mondo. Lo scopo determinato, invece,
della percezione, entro un’analitica gnoseologica ed epistemica, è
quello di riaffermare l’azione potenziale, ma mai infinitamente
possibilista, del corpo. Il corpo coglie non tutto ciò che si dia,
ma solo ciò che vuole che gli sia dia o, più correttamente, ciò
verso cui si muove. In tal modo, allora, l’oggettivazione non solo
assume un significato nuovo, ma ricalmiera anche il senso stesso
della soggettivazione. La selezione percettiva è selezione
percettiva cosciente. Questo fa sì che la cosa rinneghi
completamente l’in sé, alla quale è spesso condannata. In tal
senso, infatti, l’affermazione della cosa ed il darsi stesso della
cosa è un darsi in virtù dei movimenti percettivi dell’uomo,
della coercizione o anche della sensualità che la cosa esercita sul
corpo (che è inestricabilmente coscienza). Ed il corpo, in quanto
inestricabilmente coscienza, risponde operativamente alla sensualità
delle cose, muovendosi solo verso quelle che lo fascinano
particolarmente, in virtù della sua tematizzazione. Pari meriti,
tuttavia, è indispensabile per l’esistenza del corpo stesso la
fascinazione esercitata dagli oggetti. Pur costruendo l’alfabeto
delle fascinazioni del mondo, infatti, il corpo non può edificare da
solo la fonte di questo alfabeto di fascinazioni, se non ammettendo
l’eterogeneità delle fonti di fascinazioni; eterogeneità che
sarebbe tale, malgrado il corpo.
È
qui che, nel dettaglio, comincia a rivelarsi la vera fisiologia
percettiva e di significato della poesia e, anzitutto, degli scenari
di vissuto che non solo caratterizzano il corpo, ma sono
caratterizzati dal corpo stesso, in una sublimazione portata al
massimo livello dalla poesia. Potrà sembrare strano ed arzigogolato,
ma tutta questa analitica sul corpo e la percezione rappresentano il
terreno liscissimo per giungere, nel prossimo intervento, ad
intendere il Greifen
in
poesia. Mi si permetterà, dunque, questa presunta digressione
tematica; una digressione che, in realtà, altro non rappresenta che
il mangime fisiologico sul quale si innesta la poesia.
La
poesia è, in fondo, corpo!
__________
NOTE
[1] Schneider fu un soldato colpito da una granata in guerra. Granata che causò una lesione alla regione occipitale del cervello, con conseguenti danni neurologici analizzati da Gelb e Goldstein, esponenti della neuro-psicologia tedesca. Tra i vari disturbi: ritroviamo un’evidente difficoltà nel cosiddetto Zeigen, nell’atto di designazione. Nell’atto, quindi, di compiere movimenti astratti (che gli facessero toccare parti del corpo a comando) basati sulla tematizzazione del proprio corpo. Gli studi, soprattutto di Goldstein, su Schneider sono centro della lunga riflessione di Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione.
[2]
Riflettere
è da leggersi, in questo contesto, entro un’apertura complessiva
che travalichi il soggetto che riflette ed il sé riflesso, inteso
come oggetto. Riflettere diviene il significato complessivo e totale
del possesso; dunque l’ingresso personale entro l’altro,
l’apertura sedimentante. Possedere, così come riflettere, diviene
la transizione di sguardo o la totalità dell’inerenza di uno
sguardo che non teme spazio e tempo.
[3]
Greifen:
sempre in Golstein e Merleau-Ponty l’atto della prensione. Il
rivolgimento, quindi, ad un oggetto concreto, non essendo richiesta
specificamente tematizzazione corporale (cinestesia, ad esempio).
[4]
Segni,
Merleau-Ponty.
[5]
Solo
così la poesia, è poesia di coscienza!,
Parole di Fedro – 26 ottobre 2024.
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