(Redazione) - Dissolvenze - 35 - Non andiamo abbastanza spesso a Heidelberg

 


 di Arianna Bonino

A Heidelberg ci sono tantissime cose importanti da visitare: come per ogni luogo di un certo interesse storico, artistico e culturale, basta domandare a Google cosa non perdersi nel corso di un viaggio dedicato alla località d’interesse e ci verrà restituito un elenco illustrato, con tanto di mappe stradali e itinerari suggeriti, corredato da luminose fotografie, oltre che da indicazioni dei migliori ristoranti e alberghi del posto.
E quindi ho provato a interrogare il sistema, con la curiosità di capire se, tra “le 5 cose da vedere assolutamente se vai ad Heidelberg” ci fosse anche quella che andrei a visitare io.
Bene, allora, se andate a Heidelberg ricordatevi che non potete assolutamente fare a meno delle seguenti escursioni: (1) il bellissimo castello di Heidelberg, poi (2) la passeggiata nella Altstad, la città vecchia, così come (3) la visita alla chiesa dello Spirito Santo, ma anche (4) quella alla vivace piazza del mercato, senza dimenticare (5) un po’ di shopping in Hauptstrasse. E certamente sono tappe immancabili se si desidera imprimere nella memoria ricordi bellissimi e rendere il viaggio a Heidelberg appagante e indimenticabile.
Però, se a Heidelberg ci andassi io – cosa che non ho ancora fatto, ma che non escludo di fare –, sono certa che troverei il tempo per un’escursione supplementare (o magari, per una buona volta, rinuncerei allo shopping). Io andrei a vedere l’università di Heidelberg. O meglio, l’ospedale dell’università di Heidelberg; meglio ancora, una cosa che si trova presso l’ospedale dell’università di Heidelberg. A dire il vero, non è una cosa sola, sono oltre 20.000 cose: certo, non potrei vederle tutte, ma non è questo il punto. Queste oltre 20.000 “cose” formano un’universalità denominata “Collezione Prinzhorn”. Il nome di questa collezione si riferisce ad Hans Prinzhorn.
Prinzhorn, storico dell’arte, nato a Hemer (in Westfalia) nel 1866, dopo gli studi di arte e filosofia si dedicò alla musica, studiando pianoforte presso il conservatorio di Leipzig. Dopo aver preso parte alla I Guerra Mondiale in qualità di assistente di un chirurgo militare, riprese gli studi, questa volta di medicina, prima a Friburgo e poi a Strasburgo, laureandosi infine a Heidelberg nel 1919. Il titolo della sua tesi di laurea permette di intuire quello che sarà da quel momento il campo d’interesse e approfondimento di una vita: “Le facoltà artistiche dei malati di mente”. E, infatti, dal 1919, quando prende servizio presso l’ospedale psichiatrico dell’università di Heidelberg, la sua attenzione e i suoi studi sono volti ad indagare la produzione “artistica” dei malati di mente.
Le 20.000 “cose” e oltre che compongono la collezione Prinzhorn sono in effetti frutto di quella che lo stesso Prinzhorn chiama “attività plastica dei malati mentali”.
 
fig, 1 - A
fig. 2 - A
fig. 3 - A

Le prime 5000 produzioni grafo-plastiche e scultoree della collezione vennero raccolte tra il 1919 e il 1922 da numerosi istituti psichiatrici di tutt’Europa, incluso quello di Torino, dove, come è ben noto, Lombroso andava raccogliendo reperti di vario genere, seppur con intenti scientifici di impronta lontanissima dall’approccio di Prinzhorn. Senz’altro Prinzhorn riconosce il fatto che Lombroso abbia avuto un ruolo determinante nel rivolgere l’interesse psichiatrico verso le opere e le produzioni grafo-plastiche dei malati mentali. Ma altrettanto Prinzhorn non può negare che siano gli scritti dello stesso Lombroso a dare origine e favorire il diffondersi della formula “genio e follia”, avvalorando appunto l’idea, non condivisa, che i geni sono anche un po’ folli:
«partendo dall'analogia di fenomeni esteriori, è superficiale e falso trarre la conclusione che anche gli stati psichici implicati siano simili. L'asserzione: questo pittore dipinge come questo o quel malato, dunque è malato mentale, non è affatto più convincente né più significativa dell'altra: Pechstein ed Heckel realizzano sculture in legno simili a quelle dei neri del Camerun, dunque sono neri del Camerun. Chi è incline a questo tipo di ragionamento, non può avere nessuna pretesa di esser preso sul serio.» (b)
La collezione è formata da disegni e scarabocchi, ma anche da ricami e lavori di cucito, o ancora piccole sculture prodotte con legno o mollica di pane, opere realizzate da internati e internate che, in modo del tutto spontaneo, dando corpo alla loro personale pulsione e senza una pregressa competenza artistica acquisita, così come senza alcuna sollecitazione eterodiretta, iniziarono ad esprimersi attraverso la pittura, il disegno, il cucito, la scultura.
«ll bisogno d'espressione è da intendere come un fluido onnipresente alla maniera dell'Eros, della cui esistenza non si può convincere nessuno, non essendo conoscibile in base all'esperienza diretta.» (c) 
 
Camicia di forza ricamata, Agnes Richter (d)
 
La collezione Prinzhorn ha un’importanza culturale e scientifica enorme, avvalorata dal fatto di non essere una semplice raccolta, una sorta di enorme e speciale wunderkammer. Prinzhorn quegli oggetti li classificò, li catalogò e li studiò minuziosamente perché, contrariamente a quanto ritenuto prima dell’avvento dei suoi contemporanei Bleuer e Freud (e in seguito, Jung e Jaspers), era anche lui convinto che la schizofrenia (circa l’80% della collezione è prodotta da malati di schizofrenia), così come le altre malattie mentali, non fossero affatto da considerarsi irreversibili.
L’attività plastica dei malati mentali, quindi, non è azione priva di significato o importanza, è piuttosto espressione della loro capacità creativa ed elemento da utilizzare nella ricerca di una possibile cura, al di là della valenza “artistica” che possa o non possa avere. D’altronde:
«Per la storia, come per la teoria psicologica, non esiste un punto di inizio certo dell'arte ma solo vaste zone originarie che, tutto sommato, pervadono ogni vitalità.» (e) 
 
fig, 4 -F