(Redazione) - Specchi e labirinti - 18 - La gemina arte di Alessandro Ardigò in “Cedere e altre cose dette d'amore" (Eretica Edizioni, 2022)

 
A cura di Paola Deplano





Dante Gabriel Rossetti scriveva e dipingeva, Michelangelo era scultore e poeta, un certo da Vinci, per soprammercato, era persino scienziato e inventore. Insomma, ci sono molti illustri precedenti in cui una singola persona viene baciata da due o più Muse, una guancia per ciascuna – e, nel caso di Leonardo, persino sulla bocca. Non è solo, quindi, Alessandro Ardigò, nella duplice strada dell’espressione del sé attraverso una gemina arte.
Cedere e altre cose dette d’amore (Eretica Edizioni, 2022) è, per adesso, l’ultimo libro di poesie di quest’autore, corredato dalle fotografie di Eugenio Tonoli. Una scelta che la dice lunga sull’impossibilità, per Ardigò, di vivere la poesia solo come mero esercizio di scrittura. Senza l’immagine, sembra dirci, la poesia si avvia per il mondo senza una valida gemella che la sorregga e la rispecchi. In questo libro il poeta/disegnatore si ritrae per consentire che siano le immagini di un estraneo a fare da controcanto – a nostro avviso pregevolmente – a quanto da lui scritto. La silloge si apre con una dichiarazione d’amore alla Forma, unica Dea da inseguire e possedere per poter dire di essere veramente un artista:
«L’arte, e quindi anche la poesia, essendo per definizione estetica, non riguarda se non la forma; in questo senso, è forma il contenuto. Essa attrae più di quanto la causa eserciti una spinta. È la forma il fine intrinseco di un’essenza.»


Subito dopo questa dichiarazione d’intenti vestita da petit poème en prose ne arriva un’altra di segno opposto, stavolta in poesia:

Ascolta.
C’è una poesia,
se sollevi le lettere
e togli via l’inchiostro.

Qui la poesia è ciò che resta al di là della forma, il suono dell’ineffabile, il residuo ultimo della scarnificazione della parola. Ardigò, con questo doppio proclama, ci fa perdere, ci confonde, ci disorienta. Non abbiamo più una forma, un’immagine, un suono a cui aggrapparci. Siamo soli e naufraghi e lui non ci aiuta a trovare una strada unica, sicura. Forse anche lui è nel bivio. Forse è sul burrone, incerto se buttarsi o volare. Forse non riesce a guidare se stesso, quindi rinuncia a guidare noi. Ma andiamo avanti, nonostante, verso la prossima lirica:

Come il garrito di rondini nere
è il piacere. Nelle sere d’estate
esse coprono voci umane
che strepitano nelle piazze.
Le parole si spengono
in quel muro sonoro.

Silenzio disadorno
- quasi uno scorno –
come il piacere.

Quanto D’Annunzio, in questa lirica. Il miglior D’Annunzio, a cui Ardigò ruba il titolo di un romanzo, l’atmosfera da sera fiesolana e le “voci umane” de La pioggia nel pineto. Un D’Annunzio sobrio, innestato, come un buon vitigno corposo, con il miglior Pascoli, quello degli onomatopeici “videditt” delle rondini in Dialogo, lirica falsamente ingenua contenuta in Myricæ. I rimandi cifrati al vasto bagaglio culturale dell’autore non finiscono certo qui, anzi attraversano come un sottinteso fil rouge tutta la silloge. Ne elenco qualche esempio, per ciò che ho colto per affinità con i Maestri da lui evocati. Ecco il titolo di un’opera di Primo Levi (Ad ora incerta) che si insinua nell’incipit di una poesia di Alessandro: «Mi piace, ad ora incerta…»; e come non vedere l’attacco de L’infinito di Leopardi nell’attacco di un’altra lirica di Ardigò: «Sempre volge il mio pensiero al tuo volto…»; e nel verso incastonato in un’altra poesia «tu che sempre scendi invocato» si richiama, neanche troppo nascostamente, Alla sera di Foscolo. Bello questo lieve gioco di rimandi che sembra non finire mai. Il gioco di specchi che rimbalza da una poesia all’altra, tra i disegni e le parole, in un’arte spesso gemina ma sempre coerente con se stessa.

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