(Redazione) - Dissolvenze - 08 - Sul campo si chinò la sera/ai prigionieri le stelle accese

A cura di Arianna Bonino
Non so quando di qualcuno si possa iniziare a dire che è “un poeta”. Anche perché dare una definizione di poesia è per me impossibile. Ma so che Josef Čapek poeta lo è e ha incominciato ad esserlo molto prima di scrivere poesie. Dalla mia, ho Vítězslav Nezval e Jaroslav Seifert, che lo dissero poeta in virtù della sensibilità rivelata dal suo primo scritto “Le arti più modeste” (“Nejskromnější uměni”, 1920), una raccolta non di poesie, ma di brevi saggi dedicati al sopravvivere, nelle periferie, delle forme d’arti minori, ai piccoli artigiani e alla sapienza speciale dei loro mestieri destinati all’estinzione, ma allora non ancora fagocitati dalla massificazione della produzione industriale. Forse l’intento di Josef Čapek non era quello di fare poesia descrivendo l’arte del “pittore d’insegne” che “è assolutamente convinto della piena esistenza delle cose che rappresenta” o del tappezziere che crea sofà dalle svariate personalità date dalle diverse fantasie dei tessuti scelti per rivestirli: divani capricciosi e volubili, quelli avvolti da minute e graziose api stilizzate; più austeri e rigidi quelli di velluto a coste, verdi e blu. E non sapeva di fare poesia, Čapek quando, come immagino, si soffermava a descrivere l’orologiaio e la sua bottega piena di ticchettii, di silenzi ritagliati tra una lancetta e una cifra che scattava sul datario, e di passerotti di legno ostinati a non voler uscire dal buio dei cucù.
Ma la poesia per taluni è inevitabile.
Josef Čapek era nato il 23 marzo del 1887 a Hronov, nella Boemia Nord orientale.
Morì non ancora sessantenne, probabilmente nel lager nazista di Bergen Belsen, probabilmente di tifo, probabilmente tra il 13 e il 30 Aprile del 1945, poco prima della liberazione. La moglie Jarmila non rivide mai né il marito, né il suo cadavere. Non stupisce: sono milioni e milioni i corpi dispersi dall’olocausto, in una forma o in un’altra. Senza valore in vita, senza valore poi. Sono innumerevoli le poesie mai scritte, le lettere, ma anche i silenzi cancellati, mai sbocciati nelle vite che non sarebbero mai più state.
Uno di quei futuri mancati era suo, di Josef Čapek, il poeta postumo, lui che non lo sapeva ancora che non sarebbe stato vivo nel suo futuro, quando scelse di studiare presso l’Accademia di Arti Applicate di Praga. Il successivo viaggio a Parigi fu determinante per entrare in contatto con le avanguardie e diventarne egli stesso promotore e artefice, quando rientrò in patria, dove si distinse come pittore cubista, disegnatore e vignettista per diverse riviste:


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Sono anni belli, in cui esprime il suo talento multiforme come redattore e critico d’arte, ma contribuendo anche e in modo determinante al lavoro di suo fratello minore Karel: è insieme che i due Čapek scrivono novelle e drammi e sono di Josef le illustrazioni a diverse raccolte di racconti di Karel, autore nel 1920 di “R.U.R.” ( Rossumovi Univerzální Roboti), un’opera di fantascienza che avrà un’influenza enorme sulla seguente letteratura e cinematografia di settore. È in quell’opera che compare per la prima volta la parola robot, ideata da Josef e utilizzata da Karel per indicare gli androidi protagonisti del dramma.


Josef si dedica con sempre maggior frequenza alla scrittura, anche di novelle per l’infanzia: è ancora oggi un classico della letteratura per bambini la raccolta di storie dedicata alla figlia Alena “I racconti sul cagnolino e la gattina”.
A differenza di quanto si può dire in merito alle opere del fratello Karel, tradotte a tutt’oggi in tutto il mondo, il lavoro di Josef non ebbe stessa fortuna e finì nell’oblio. Si attende che qualcuno si occupi di tradurlo, magari a partire dal saggio in forma di romanzo che in italiano si intitolerebbe “Il pellegrino zoppo”, scritto nel 1936 e che attirò l’attenzione dello slavista Angelo Maria Ripellino per l’originalità della forma (è un dialogo ricco di riferimenti colti), ma soprattutto perché rivela la poetica čapkiana: “Il piacere di vivere si accompagna a un senso di fugacità, di ritardo, di sciupio ed è turbato da inconsolabili lutti. Ma anche nei giorni più neri, di fronte alla tragedia del popolo ceco, Josef riconferma il suo attaccamento alla vita […] Non c’è mai nelle sue pagine un regresso della persona umana, un’abdicazione dell’individuo. L’uomo čapkiano mira a conquistare se stesso per reagire all’inclemenza della sua epoca.” (1)

Hanno idee moderne e non convenzionali i fratelli Čapek, ma soprattutto non si vogliono allineare al fascismo, anzi gli sono apertamente ostili. E rinunciano ad autoesiliarsi quando è ormai chiaro che l’occupazione nazista è alle porte.
La Gestapo si presenterà a casa di Karel per arrestarlo e non lo troverà perché è morto di polmonite nel giorno di Natale. È il 1938 e, non trovando lui, le milizie naziste si avventano sulla moglie, che verrà interrogata, e poi arrestano il fratello Josef, colpevole, come giornalista e disegnatore, di essersi schierato con i suoi scritti e le sue grafiche contro gli “ideali” nazisti.



È l’inizio di un calvario che si riassume nei tristemente noti nomi di alcune località, che oggi potremmo ricordare per le loro bellezze - o anche non ricordare affatto - e nominando le quali, invece, si è percorsi da brividi: Dachau è una cittadina graziosissima, con un borgo storico pieno di cose belle. Ma, al sentirla nominare, si pensa al grigio dei fumi di morte. Buchenwald è nella Turingia. Siamo in Germania orientale. Posti ridenti e verdi. Ma a Buchenwald non si va per sorridere, bensì per ricordare, per avere almeno una vaga idea di quanto vi accadde.
Sulla profondità dei campi di concentramento, la lucida scrittura di Rousset forse più di tutte è in grado di restituire la concretezza dell’orrore: “Buchenwald vive sotto il segno di un debordante umorismo, di una buffoneria tragica. All’alba, le banchine irreali sotto la luce cruda e neutra dei fari, le SS instivalate, il Gummi in pugno, mordaci; i cani che abbaiano tesi, col guinzaglio floscio e allentato; gli uomini, raggomitolati per saltar giù dai vagoni, accecati dai colpi che li intrappolano, rifluiscono e si scontrano, si urtano, si slanciano, cadono, beccheggiano a piedi nudi nella neve sporca, impediti dalla paura, perseguitati dalla sete, coi gesti allucinati e rigidi di meccanismi inceppati.” (2)
Tra quei prigionieri c’è anche Josef Čapek. Come tutti gli altri, ormai sa perché è lì e quindi, anche se non ha nessun senso esserci, sa che non c’è nulla che potrà permettergli di cambiare un destino che non è più nelle sue mani. Eppure spera, disperatamente. Da un giorno all’altro può cambiare tutto, da un minuto all’altro si può passare dalla vita alla morte, per via di un capriccio, per la noia o il sadismo di una guardia, per il divertimento del suo cane.

E sarà a Saschenhausen che, dall’inverno del 1943 all’inverno del 1945 Josef Čapek scriverà tutte le poesie della sua vita. Sono componimenti che rispecchiano uno stile classico, in armonia con le scelte metriche della poesia ceca della tradizione, perché, proprio come ebbe a dire lo stesso autore, la struttura solida dei canti classici sarebbe stata in grado di preservare il messaggio e di avvicinarsi al senso più intimo della loro natura.
Le poesie di Josef Čapek gli sopravvissero perché affidate ai compagni, perché trafugate da chi riuscì a scampare all’annientamento.
Il destino decide in modo imperscrutabile chi salva e chi condanna. Fu poco prima della liberazione che Josef Čapek venne trasferito ancora una volta, questa volta a Bergen Belsen, dove morì nel giro di un paio di mesi, forse a causa di un’epidemia di tifo.
La pubblicazione delle poesie di Josef Čapek fu quindi postuma: è il 1946 e il grande poeta Vladimr Holan, che di Josef era amico, riceve le liriche dalle mani di sua moglie e ne cura la prima edizione.
Nel 1980 uscirà una nuova edizione, sempre in lingua ceca, arricchita dalle traduzioni a cui il poeta si era dedicato nel campo di concentramento di Buchenwald.


“Poesie dal campo di concentramento” (3) è l’unico libro di Josef Čapek che per ora abbiamo il piacere di poter leggere in traduzione italiana. Il volume contiene anche alcuni disegni dell’autore e il testo in ceco, che permette di intuirne la bella struttura metrica e la rima.

La passeggiata dei prigionieri

Rettangolo di muri di pietra
un quadrato di ferro il cancello
serrato dal cielo lontano,
in alto il filo spinato:
questo è il nostro giardino, questo il nostro campo.

Rettangolo di muri di pietra
in cerchio i detenuti vanno
lontano i comandi marziali,
in cerchio l’uno dietro l’altro
- così i nostri giorni -

Sono versi intrisi di dolore. Eppure, ciò che li pervade è pur sempre una dolcezza feroce, una nostalgia immensa di ciò che è perduto e anche delle cose che ancora si possono vedere in quel pezzo di cielo che nessuno può cancellare: stelle, nuvole, vento. Per tanto che la morte si ripeta sempre nuova e sempre uguale e sia davanti e dentro e attorno e ovunque, è tanto assurda da credere che non potrà finire così la vita, che forse è un brutto sogno che svanirà al prossimo sorgere dell’alba:

Canzone

Forse sarò ancor più anziano,
forse mi attende qui una gioia grande:
amavo tanto la vita,
forse conoscerò il segreto dei fiori.

Di fervido amore amavo il mondo:
cosa ai miei occhi sarà – chi lo sa?-
concesso vedere da lontano,
forse finanche i fiori del segreto?


Di un merletto d’argento

Di un merletto d’argento si adornano le nuvole
qui e là si mostra il blu, un tempo era la mia gioia,
era una gioia per me quel gioco di luce dei cieli
- e come è pesante ora! La vita non consola il prigioniero!

Il pomeriggio è forse giunto all’apice,
martedì? mercoledì? Non conosce presente l’anima del prigioniero
cos’è per lei la vita, il tempo, cosa ieri – domani – oggi?
lei vive al più di sole speranze e ricordi.


Prima della primavera

Smarrito si sveglia il mattino; estraneità
e ruvidezza l’alba dischiude,
poi sorge il giorno, per guardare
mille volte più duro e altero al dolore;
e giunge la primavera: non senti? canta il merlo
come quando per te nel giardino di casa cantava.


Le poesie di Josef Čapek descrivono il tempo: il tempo che era, la nostalgia di chi sa che nulla potrà tornare com’era. Il tempo che è, terribile e torturante come una condanna infinita, ma pur sempre ancora vita e con ciò, crudele speranza. Il tempo che non sarà, il tempo che poteva essere, con dentro tutto quello che mai si saprà, nel suo essere poco o tanto, nel suo esser bello o brutto, nel suo essere gioia o dolore, ma comunque nel suo esserci.


“Il quinto anno”

Con ogni respiro desidero,
con ogni respiro spero
con ogni respiro credo;
con la mia vita misuro il tempo straziante
con ogni battito paziente, paziente,
con ogni battito smanioso, selvaggio,
misuro col mio cuore, il tempo crudele;
a ogni respiro e battito muoio
a ogni respiro rinvigorisco di nuovo,
a ogni respiro desidero e mi affretto
a ogni scivolo la vita viene meno
a ogni respiro riacquisto le forze
e nuova fiducia mi rendo;
così vivo il tempo, così gli muoio
e con me migliaia, così noi a migliaia,
eppure sono solo nel mio desiderare,
quando col battito, col respiro il mio tempo misuro.


Che non si possa fare più poesia dopo tutta questa distruzione e questa voragine senza fine è un timore comprensibile. Ma, intanto, l’unica lingua che forse davvero è rimasta a chi quel buio l’ha dovuto misurare palmo a palmo, proprio mentre il buio s’infiltrava in ogni sguardo, in bocca, nelle orbite, nei polmoni, nei visceri, l’unica lingua possibile è quella che non si sa cosa sia, ma c’è. Ciò che una piccola e leggera parola nomina, schiudendosi al mistero del dire dove tutto il resto tace e si ferma.


NOTE
(1) Angelo Maria Ripellino, “Due studi di letteratura ceca. L’arte di Josef Čapek, in “Convivium”, n.3, 1950, pp383-395 passim.).

(2) David Rousset, L’universo concentrazionario, Baldini &Castoldi, 1997, pag.30.

(3) Josef Čapek, “Poesie dal campo di concentramento”, Miraggi, 2019


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