(Redazione) Letti da Francesca - 05 - su Atlante della nostalgia, Marco Patrone, Arkadia Editore Collana Eclypse, 2021


A cura di Francesca Piovesan

L’Atlante della nostalgia di Marco Patrone è lo dispiegarsi della vita su carta lucida; quella carta lucida usata per seguire con il dito una catena montuosa, o il percorso di un fiume, il confine di un continente, o gli anelli della densità abitativa di una capitale.
L’Atlante sono quattordici racconti che delimitano le tappe: adolescenza, i quarant’anni, un’epoca della crisi, e un memoriale rivolto a un vizio mortale, per quanto controllato.
Ci sono le storie, ci sono i personaggi, ci sono canzoni e film.
C’è la vecchia Europa, un’Italia di provincia, di periferia.
C’è il sesso, fatto di ore, giorni, stanze d’hotel, incontri ricercati, non voluti, ipotizzati, sperati.
Esiste la solitudine in questo Atlante, esistono le amicizie d’infanzia, degli anni universitari, esistono uomini divorziati, inghiottiti dalle strade e dai chilometri, esistono le donne deformate da una tragedia, minute come un piccolo fiore carnoso.
“La vita quieta”, che si vuol calciare via per sempre, abbandonandola tra le ruote di un fiorino che corre veloce, ritorna sempre nel corso degli anni; ritorna sempre, con prepotenza, la voglia di andarsene, di lasciare tutto e tutti, di staccarsi da terra per giungere oltre, altrove.
I due ragazzi che, di fronte alla tragedia del Bataclan, cercano di iniziare il loro amore, di renderlo accettabile in una notte di dolore e orrore, guardano il mondo che prosegue, che proseguirà sempre, che macina attimi che sono subito passato, cibo già digerito, bolo indistinguibile che nutre il vecchio meccanismo: “il mondo è crudele, il mondo è quel che è.”
Le versioni di noi sono ricordi, pensieri, o semplicemente e auspicabilmente sospiri.
Sospiri intrappolati tra desiderio e desiderio di controllo, tra passione e paura di lasciare e lasciarsi andare, tra miserie e miracoli a cui i corpi devono cedere, o esserne assoluti protagonisti.
Corpi che possono essere aitanti, desiderabili e desiderati, oppure deformi, osservati e allontanati, creditori di doni maligni, figli di padri che nulla potevano sapere o immaginare, depositari di una assoluta fiducia nel progresso, nel futuro, nelle fabbriche che hanno inaugurato il benessere.
E poi la crisi: l’alcol, la dipendenza, la malattia mentale, i dottori.
Preghiere recitate, monologhi senza risposta, paura di arrivare al punto di non ritorno, forza nel capire che quel non ritorno non succederà mai, o almeno non ora, non adesso, succederà perché è fatalità, non volontà.
Un Atlante di vita, perché alla fine rimane solo questo: vivere.



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