(Redazione) Specchi e labirinti - 03 - Dialogo con Florbela Espanca

A cura di
Paola Deplano


Sono figlia dell'amore, o piuttosto dello scandalo.
Mio padre era sposato con una donna, ma ha fatto i figli con un'altra. Due, per la precisione. Me e mio fratello. Questo, alle soglie del 1900.
Sin da piccola, ho creato poesie, prima ancora di scriverle.
Ricordo lunghi pomeriggi passati sotto il tavolo, a canticchiare nenie interminabili.
Dicono che fossi intelligente. Può darsi, visto che sono stata una delle prime donne laureate del Portogallo.
Questa presunta intelligenza, però, invece di facilitarmi la vita, me l'ha resa più complicata. Ciò che per chiunque era scontato, per me diventava impossibile, perché analizzavo i pro, i contro, le conseguenze e le catastrofi di qualsiasi decisione, persino la più semplice.
Dicono che fossi bella, anche se io mi sono vista sempre brutta. Agli uomini piaceva il mio sorriso. Dicevano tutti così, sembrava si fossero parlati l'un l'altro. E se hanno detto tutti la stessa cosa, doveva essere vera. Per forza.
Mi sono sposata tre volte, due volte ho divorziato e la terza, anche se non l'ho fatto, la passione era finita lo stesso. Poi, non mi vergogno a dirlo, ho avuto anche altri uomini.
Ci amavamo, all'inizio. Poi succedeva qualcosa, qualcosa di sempre diverso, e finiva lì.
Chi dice che si può amare la stessa persona tutta la vita mi fa rabbia, perché sta mentendo, sapendo di mentire.
Sono rimasta incinta molte volte, ma non ho mai stretto un bimbo al seno. Sognavo, vomitando nel bagno. Sognavo una bambina, da riempire di baci e nastri rossi tra i capelli scuri.
Purtroppo, tutte le volte, finiva così: un mare di sangue e l'addio inevitabile.
Poi un giorno è morto anche mio fratello. A quel punto c'era rimasta solo la poesia. Evidentemente, troppo poco per vivere.
L'8 dicembre, il giorno del mio trentaseiesimo compleanno, ho preso le pillole per dormire. Tutto il flacone.
FLORBELA ESPANCA, di Paola Deplano


NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA SU FLORBELA ESPANCA
Flor-Bela d’Alma da Conceição Espanca - una delle voci poetiche più interessanti della letteratura portoghese – nasce l’8 dicembre 1894 a Villa Viçosa, frutto dell’unione tra il padre João Maria Espanca e la vicina di casa Antònia Lobo, con la quale l’uomo ha una relazione col pieno consenso della moglie sterile. Tre anni più tardi João e la signora Lobo diventano genitori anche di Apeles, l’amato fratello di Florbela.
Florbela termina il liceo nel 1917 e si iscrive alla Facoltà di Legge di Lisbona.
Si sposa tre volte: nel 1913 con Alberto Moutinho, nel 1921 con Antònio Guimarães e nel 1925 con Mário Lage. Collabora con giornali e riviste e lavora come traduttrice dal francese.
Nel 1927, in un incidente aereo, muore il fratello Apeles. La scrittrice si suicida l’8 dicembre del 1930, il giorno del suo trentaseiesimo compleanno.
In vita pubblica Livro de Màgoas nel 1919 e, nel 1923, Livro de Sòror Saudade. Escono postumi: Carneca em Flor (poesie), A Máscaras do Destino (racconti), Juvenília (poesie), Cartas de Florbela Espanca (tutti nel 1931, a cura di Guido Battelli); nel 1891 Diário do último ano (diario) e nel 1892 O Dominó Preto (racconti).

L’AVIATORE di Florbela Espanca
Sul fiume di velluto verde-blu palpita fremente la carezza ardente del sole; le sue mani dorate, come affilate grinfie d’oro, gualciscono le piccole onde, le piegano con passione, facendole ansimare, sospirare e gemere come un enorme seno nudo. In alto, fazzoletti bianchi spiegati, le ali dei gabbiani dicono addio a quanti vanno sperduti sulle acque del mare…Sul fiume alcune vele: piccole oasi di freschezza nel calore crepitante. Nient’altro. Una pittura dipinta a fuoco da un pittore geniale. I colori divampano, ancora umidi: chiazze rosse le colline intorno; dorato, l’indistinto nugolo dei caseggiati in lontananza.
La vita vibra appena, aleggia quasi immobile in un’agitazione intima, condensata, assorta e profonda. La vita ferma e raccolta, crea nuovi eroi nei fluidi indefiniti della sera.
Gli uomini, schiudendosi – farfalle come salamandre scampate al fuoco – aprono le braccia a mo’ di ali e fluttuano! Dalla pittura dipinta a fuoco da un pittore geniale sfavilla…cosa? Un altro gabbiano?…Un’altra vela?…
Tutto divampa intorno. Il pennello del genio dà gli ultimi rintocchi all’epico scenario. I colori sono smalto lucente. Più rosse le colline adesso più dorata la città distante.
I figli degli uomini, quaggiù, depongono nei campi la vanga che fa nascere il pane e fiorire le rose; i pescatori posano i remi audaci che fendono mari e fiumi, e i figli degli uomini puniti più duramente- formiche che popolani i formicai delle città – arrestano il loro viavai insensato : tutti svolgono lo sguardo al cielo.
Cosa si muove al di sopra del fiume? Un altro gabbiano?…Un’altra vela?…
Lassù, l’apoteosi avviene fra lo stupore generale. È un uomo con le ali! E le ali si librano, scendono, volteggiano, risalgono, girano, picchiano, battono al sole, più agili e forti. Più leggere e possenti di quelle di un’aquila. È un uomo! Il viso energico, lavorato col cesello, pieno d’intensità vitale, si stacca dai contorni indecisi, vaghi e pallidi che gli fanno da sfondo: il viso e anche le mani. È un Rembrandt dipinto da un titano.
Nella forza bruta delle mascelle serrate s’indovinano i muscoli del viso. Negli occhi, visioni sconosciute ai figli degli uomini. I suoi occhi invisibili, che guardano dentro e fuori, sono di pietra come quelli delle statue e vedono più in là delle misere pupille umane. Sono astri!
È un uomo! Ha lasciato laggiù ogni vile e pesante fardello ricevuto alla nascita; ha lasciato laggiù le manette e le ferree catene che lo tenevano prigioniero, la maledizione suprema di essere nato maschio; ha lasciato laggiù la bisaccia da mendicante, il bastone da Ebreo Errante, e libero, indomito, sereno, in una misera corazza di stoffa blu, ha allargato a mo’ di croce le braccia tramutate in ali!
Nessun’ombra di nervosismo, nessuna increspatura nel profilo di medaglia fiorentina, sul viso cesellato in bronzo, un bronzo pallido che pulsa e vibra; nessuna ruga in quell’olimpico esemplare di statuaria antica, forgiato nell’oro fuso nel pomeriggio incendiato. In alto, il suo cuore è un’altra onda del fiume, palpitante, ritmica, nella sensualità pomeridiana; è una voce che sussurra, che lui sente sussurrare insieme a un’altra, più aspra, più rude: quella del cuore d’acciaio che pulsa e risponde sotto la pressione delle sue mani.
Sempre più fulgido, il sole sale ancora, va oltre e con la bocca rossa morderà il bronzo vibrante delle mani trionfanti. Mani sovrumane: formidabile il loro sforzo, prodigiosa la loro volontà! Hanno dimenticato le carezze e i baci, il fremito dei contatti inconfessabili, il tocco tremulo sule carni giovani e desiderate; hanno lasciato laggiù gesti di pietà e dolcezza, il profumo delle chiome sciolte, la forma dei volti amati modellata dai palmi febbrili, tutto ciò che hanno posseduto, i desideri verso cui si sono tese; hanno perso le curve armoniose, il tepore dolente e soffice di preziosi strumenti d’amore! In alto, contratte come artigli e avvinghiate alla preda, sono loro che ammanettano, schiavizzano e soggiogano le ali prigioniere!
E lì, in alto, l’uomo è felice. Come chi lancia con disprezzo un pugno di petali al vento, lancia quaggiù i miseri resti dell’oro portato via, l’oro dei ricordi dimenticati. L’uomo è felice.
L’apoteosi continua. Il pittore geniale è impazzito; scaglia come frecce le sue pennellate senza colori cangianti, né ombre, né sfumature; scaraventa con rabbia dalla sua tavolozza tutto il rosso e il dorato e dipinge colpendo la tela con i gesti impetuosi di un folle. Da dove viene tanto oro? Prodigio! Miraggio! Incanto! Perfino le vele sanguinano e incastonate nelle ali dei gabbiani, cosparse di cenere, rutilanti pietre rare. È iridescente ora il fiume di velluto verde-blu; il sole, bambino prodigio e incosciente, ride e lancia le sue ultime gemme. Intorno, le colline sono le mani aperte di un carnefice, e il caseggiato, colpito dalla luce, è un mantello di porpora i cui brandelli finiscono fra le vampe dell’orizzonte incendiato. L’uomo è felice. Tende le ali verso l’alto, scalando vette infinite, ormai fuori dal mondo, inebriato dalla meravigliosa sensazione di superare se stesso! Si sente un dio! Taglia l’ultimo filo d’oro che teneva le sue mani unite alla terra, si divincola…e cade nell’eternità.
Tanto blu! Le figlie degli dei, ondine, sirene, nereidi, principesse magiche accorrono veloci. C’è un turbinio di chiome d’oro; le braccia sono remi d’avorio che fendono le acque; portano nei seni nudi la curva dolce delle onde, nel sorriso i coralli misteriosi delle profondità; trascinano mantelli verdi intessuti d’alghe, ricami in cui s’impigliano le stelle; caricano nel diadema d’argento fra i capelli il chiaro di luna che di notte rifulge sul fiume.
Parlano tutte insieme: cos’è stato? Cos’è successo?
Come brividi delle onde, le parole…
Intorno alle ali morte, sembrano petali di fiori attorno a un feretro nero. E guardano…
«È un altro figlio degli uomini?» domanda una, tendendo il braccio, simile a un ramo di gigli.
Ma quella dalla chioma più fulva, dove l’oro fu più prodigo e si annidò più volte, risponde in un sussurro:
«No. Non vedi che ha le ali?»
«Allora è un figlio degli dei?» domanda un’altra.
«No. Non vedi che sorride?»
Lo attorniano, lo contemplano, si avvicinano quasi a toccarlo…
C’è un turbinio più febbrile nelle chiome d’oro; gemono più profonde e melodiose le voci acute, e i mantelli, come serpenti, si intrecciano gli uni agli altri in onde sinuose.
«Ha i capelli neri come l’altro che cadde nel mare del Nord…»
Quella dalla chioma più fulva, dove l’oro fu più prodigo e si annidò più volte, si avvicina ancora…tende il braccio con timore…osa toccarlo con un gesto più lieve, più tenue di un sospiro…gli apre le palpebre serrate, l’aria seria di chi schiude un fiore…intorno fremono più volte le onde dei seni; le mani allargano le dita come scintille di stelle; una languida sirena, divinamente bianca, solleva le braccia di velluto bianco simili a due anfore piene.
«Cos’ha dentro?» domanda una melusina.
«Sono stelle?» dice la figlia di un re.
«No, due gocce d’acqua verdi, limpide, trasparenti, serene. Guardate…»
In un turbinio, intrecciando i ricami delicati dei mantelli svolazzanti, confondendo le chiome fulve come raggi di sole nascente, si chinano tutte, e in fondo, nel cuore trasparente delle due gocce d’acqua, vedono volteggiare pagliuzze d’oro – le loro chiome – vedono rifulgere i raggi lunari – i loro diademi – e tante gocce d’acqua – i loro occhi – si muovono sul fondo, come stelline, limpide, chiare e serene.
Le dee delle acque si guardano estasiate; si fa più tenue il mormorio delle voci; i gesti lievi sono quasi aliti; i mantelli verdi impallidiscono, hanno il colore delle pupille, adesso.
«Sistemiamolo sul fondo, in quel letto di opali iridescenti che ci ha donato il mare d’Oriente…» sussurra una di loro.
«Mettiamolo nell’urna di cristallo simile a una tomba aperta da dove s’intravede il cielo…» dice un’altra.
«Avvolgiamolo nel sudario di quel brandello di luna di agosto che le onde ci hanno portato dalla pianura…» mormora un’altra.
Altre voci, che scorrono come un uomo santo, bisbigliano:
«Spandiamo su di lui, come petali d’oro, i nostri capelli biondi…».
«Suggelliamo la sua bocca con il corallo rosa delle nostre bocche in fiore…».
«Lasciamo che appoggi la testa sulle dolci onde dei nostri seni nudi…».
«Possiamo adagiarlo in un posto che conosco, dove sbocciano, fra spume di neve, rose più pallide di quelle del mio palazzo lontano» dice la figlia di un re.
«Io conosco una tomba di sabbia, dove la sabbia è d’argento…».
«Ho scoperto la grotta di gemme rosa dove si nasconde l’alba…Lì le onde non cantano, potrà dormire tranquillo…».
«Portiamolo nella culla a forma di caravella che da queste spiagge partì per perdersi nel mare delle Tormente…»
Il fremito delle voci volgeva in un’alta marea…Le palpebre violetta palpitarono…
Poi una di loro, con un triste barlume di nostalgia umana nello sguardo, segni di catene sui polsi di seta bianca e una vaga cenere di crepuscolo nei capelli, gli sistemò sul petto la misera corazza di stoffa blu, in un gesto vagamente materno, e mormorò:
«Lasciatelo…forse le ali spezzate gli fanno male…»
Silenzio…
E lui, una volta figlio degli uomini, si addormentò per sempre come un figlio degli dei.

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Le note biobibliografiche e il racconto L’aviatore sono tratti da Florbela Espanca, Le maschere del destino, a cura di Jessica Falconi, Edizioni Arcoiris, Salerno 2017





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