(Redazione) Lo spazio vuoto tra le lettere - 03 - "La guerra è l'elaborazione paranoica d'un lutto" (Fornari, Lacan, Amichai e Ungaretti)

A cura di Sergio Daniele Donati
“La guerra è un'elaborazione paranoica d'un lutto” dice lo psicoanalista Franco Fornari  nel suo indimenticabile saggio “Psicoanalisi della guerra” (1966)1-2
La frase può apparire criptica e sicuramente merita più profonde riflessioni di quelle che questa rubrica può offrire.
Ad un primo livello sembrerebbe dirci che, sia per gli individui che per i popoli, guerra e conflitto sono la risposta esteriorizzata ad un dolore e lutto che si è incapaci di elaborare all'interno di sé. 
E questo, sempre secondo Fornari, avviene secondo "dinamiche" che apprendiamo in età evolutiva e trovano radice nella paura della perdita della madre. 
Il neonato, in altre parole, sente l'esigenza della madre, fonte di vita e nutrimento, per sopravvivere.
Questo gli fa percepire una sorta di sdoppiamento perché la persona che gli dà la vita è in grado con la sua assenza, anche eventuale, di dargli la morte. 
Tende dunque, per sopravvivere a scindere le due madri - la portatrice di vita e la portatrice di morte - a livello simbolico.
La madre fonte di vita entra in conflitto con la madre potenzialmente fonte di morte o sofferenza; almeno finché il bambino non mette fine a quella scissione comprendendo che le due madri, nella realtà, sono la stessa persona.
Fino a quel momento la compresenza di due madri antitetiche può dare risposte aggressive e/o schizo-paranoidi.
D'altronde è certamente dello spettro paranoico percepire come esterne le minacce che invece spesso nascono da scissioni interne.
L'aggressività, in altre parole, sorgerebbe come tentativo di esteriorizzare l'incapacità di elaborare un lutto, uno strappo - o l'impossibilità di conciliare il paradosso che vuole che chi ci dà la vita possa, con la sua assenza, darci la morte. 
Aggressività e conflitto non sarebbero dunque elementi innati nell'essere umano, secondo Fornari, ma il frutto di un fallimento nella elaborazione di un lutto.
Tra i popoli le dinamiche sarebbero simili, secondo lo psicoanalista.
Allora la Germania di Weimar ad esempio, incapace di elaborare il lutto della perdita della prima guerra mondiale, la fine di un impero, la decadenza, agisce creando un nemico esterno che non odia solo per fini strumentali, ma proprio perché mossa da una dinamica psicotica.
E non è dinamica che nega l'esistenza della sofferenza. 
Ne nega però l'origine interna, non viene elaborata. La causa viene cercata all'esterno da sé, nell'altro da sé.
E, seguendo la lezione di Jaques Lacan sulla psicosi ricordiamo che «il postulato fondamentale della paranoia sarebbe il postulato di innocenza. Per il soggetto paranoico sperimentare l’esperienza della colpa è l’esperienza dell’Altro, è un’esperienza che resta impossibile da soggettivare; esiste un rapporto direttamente proporzionale tra il grado di innocenza del soggetto e il grado di colpevolezza dell’Altro. Più il soggetto si sente innocente più l’Altro è colpevole». 

L'ebreo, il bolscevico, l'omosessuale diventano quindi l'estraneo-esterno da odiare proprio perché non si è in grado di elaborare il proprio lutto e/o la propria colpa.
In un certo senso il paranoico è il soggetto antianalitico per eccellenza, perché incapace di immaginare una elaborazione del vissuto (traumatico e/o colpevole) dentro di sé.
In fondo, però, la stessa cosa dice la saggezza ebraica.
Nessun Tikkun Olam3, nessuna riparazione del creato, è possibile senza una fase di contrizione, di lutto.
La rielaborazione passa da quei fanghi, e cercare di evitarli porta solo ad un conseguenza: la follia.
Lo sa bene anche gran parte della poesia, sia ebraica che non.
Che il linguaggio poetico abbia tra le sue primarie funzioni di facilitare l'elaborazione del vissuto, anche doloroso, è cosa risaputa, che forse si potrebbe dire di ogni linguaggio con pretesa creativa.
Lo sa bene il poeta israeliano Yehuda Amichai nella sua celebre “Dio è coricato” il cui testo qui sotto riporto:

Dio è coricato
Dio è coricato supino sotto il mondo
Sempre impegnato in riparazioni,
sempre qualcosa si guasta
Avrei voluto vederlo per intero ma vedo
Solo la suola delle sue scarpe e piango

È qui evidente, tra le altre cose, il rapporto tra assenza, disparizione, pianto e lutto, da un lato; riparazione e riconciliazione, dall'altro.
Per poter riparare il mondo persino il Creatore deve farsi oggetto di lutto e nostalgia.
E ogni elaborazione di un'assenza parte da un lutto, da un pianto, che certo il poeta non ignora.
La scrittura poetica dunque diviene argine contro la psicosi della negazione della esistenza di un dolore.
Anzi diviene linguaggio poetico - non solo di lenimento - di elaborazione per antonomasia.
Ce lo conferma anche il sommo poeta Giuseppe Ungaretti nella sua meravigliosa poesia "Veglia" 4, il cui testo qui sotto si riporta:

Veglia
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio,
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore.
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.

Ungaretti sa - come lo sa chiunque abbia vissuto l'orrore e avuto la forza di uscirne con gli strumenti fini della scrittura - che non esiste vita che non supponga un descrizione, minuziosa, quasi maniacale, della morte.
L'attaccamento alla vita in questa meraviglia di Ungaretti non si manifesta come urlo rabbioso o aggressivo, proprio perché il poeta non nega la morte né, ancor meno, ne esteriorizza la causa.
Anzi, se c'è saggezza possibile per l'autore, è nel saper supporre un rapporto stretto tra il silenzio congestionato delle mani di un compagno defunto e le lettere piene d'amore che scrive.
La via della rabbia non solo non è percorsa dal poeta; essa non è percorribile perché comporterebbe l'oblio delle vittime.
Ed è forse per questo motivo che in questa poesia è totalmente assente l'altro-nemico. C'è il morto, l'ucciso, e il testimone-scrittore amoroso. 
Manca, perché deve mancare in una seria elaborazione, l'uccisore; ché il lutto è essenzialmente un discorso tra il dolore e il soggetto sofferente, dove poco peso hanno le cause del dolore stesso. 
In altre parole, la parola poetica non può non essere, nella descrizione di un orrore, una voce di rielaborazione. 
Non può anzi che essere una parola di elaborazione.  
Il poeta rielabora sempre il lutto: trasforma in amore il gelo, in speranza la smorfia digrignata di un cadavere, il silenzio della morte nella dolce cacofonia di una lettera d'amore.
E ogni trasformazione è atto in primis di presa di coscienza di un elemento fondamentale per ogni creazione: la fragilità.
Fragile non è solo il creatore di Amichai, lo è anche il creato che, infatti, ha bisogno costante di riparazione. E, soprattutto, lo sono le singole creature.
Preziosa e fragile diviene una sola parola per Ungaretti per il quale fragilità è il richiamo di una meravigliosa poesia dal titolo "Fratelli" 5 che sembra chiudere il cerchio con la precedente.
Se ne riporta qui sotto il testo:
Fratelli
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte.
Foglia appena nata.
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità.
Fratelli.
La fragilità di una parola diviene elemento di rivolta. Anzi, la presa di coscienza del valore dirompente di una parola - fratelli - non può non passare dalla consapevolezza dell'esistenza d'una fragilità preziosa che sostiene l'uomo e gli impedisce, se ascoltata, di articolare grida psicotiche sul suo passato.
La fragilità di Ungaretti è in un dolce binomio col pianto di Amichai.
Anzi, si potrebbe immaginare che la fragilità della parola fratelli sia la lacrima del pianto di Amichai.
A chi infatti potrò mai parlare, con chi potrò mai condividere il pianto che l'assenza di un Creatore che bramo e intuisco solo da piedi distratti mi dà, se non al mio fratello che nella stessa fragilità è immerso?
La fratellanza non è un dato certo, è elemento prezioso e fragile. 
Fragile e prezioso. 
Si perde per un niente, per del fumo (come avviene a Caino ed Abele) eppure (ed è un eppure denso di poetica speranza) è l'unico argine contro la psicosi e la sua deriva paranoica, contro l'incapacità di leggere il nostro passato.
Ungaretti qui sembra suggerire un silenzioso passaggio, lento, quasi alchemico. 
Sembra dirci che parlare della fragilità di una parola significa parlare della fragilità della parola.
Qui intatti fratelli non è un concetto, un'astrazione.
È essenzialmente e primariamente un suono, un accenno di significato tremante e fragile e prezioso. 
Qualcosa da sussurrare e su cui soffermarsi. Nulla di gridato.
Quella domanda tremante delinea l'Altro da sé, certo, ma un altro che costruisce e costituisce l'ingrediente primario contro ogni elaborazione paranoica: la presa di coscienza della fragilità umana, comune a tutti.
Il mondo che Ungaretti descrive in Fratelli non è diviso tra innocenti e colpevoli. 
Al contrario, è il mondo in cui si chiede all'altro, con voce tremante, quale sia il reggimento di appartenenza, per sentirsi simili e vicini. 
Il lutto, dunque,  è un passaggio necessario alla vita, meno alla sopravvivenza.
Il lutto è il tempo (e il luogo) intermedio della rielaborazione di una perdita, d'una assenza.
E, secondo il pensiero ebraico, deve avere un suo termine (un anno), proprio perché non diventi un'altra forma di negazione psicotica del reale - rimpianto eterno o, ancora peggio, incapacità di concepire un futuro.
Non a caso è tradizione ebraica, nei periodi di lutto leggere i Salmi6 che sono tra i più alti frutti della forma poetica ebraico-antica - nascono come canti, originariamente sono musicati e, se letti secondo chiavi interpretative profonde, tracciano un vero movimento di rielaborazione del proprio ruolo nel mondo.
Per questo non può esserci poesia nella guerra, ma ci può essere poesia come rielaborazione del lutto.
Ché poesia è sempre una costruzione di ponti, anche se tibetani e barcollanti sopra abissi indicibili, nel tentativo di dirci capaci di trasformare l'orrore in consapevolezza. Di cosa?  
Del fiume di parole e silenzi che lenisce ogni ferita e trascina il passato nel futuro.
Io non credo molto nella funzione sociale della poesia.
Credo però che niente sia più padre della scrittura che la presa di consapevolezza di una lacerazione -individuale? di gruppo? di nazione?-, perché in fondo la parola è un tentativo, sebbene incompleto e inciampante, di rammendare con fili di lino proprio quello strappo.
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NOTE
1 Cliccare qui per qualche notizia sullo psicoanalista Franco Fornari 
2 Per il profilo di Treccani dello psicoanalista cliccare su qui 
3 Per qualche notizia sul Tikkun Olam cliccare qui. È peculiare del pensiero ebraico l'idea che l'Uomo partecipi alla creazione e all'opera di "riparazione" del creato.
4 La poesia è del 23 dicembre 1915 e appartiene alla sezione “Il porto sepolto”, inclusa nella raccolta poetica “L’allegria”
5 Anche la poesia Fratelli del 15.07.1916 Ungaretti appartiene alla raccolta “L’allegria” ed è stata scritta come la precedente sua dal fronte del carso durante la prima guerra mondiale.
6 In ebraico Tehillim - per una loro lettura cliccare qui
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