(Redazione) Dissolvenze - 02 - Numeri sulla pelle

A cura di Arianna Bonino

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Fu Péter Nádas (nato nel 1942), scrittore e drammaturgo ungherese, ad avere nel 2003 l’incarico di curatore della mostra fotografica allestita al Museo di fotografia dell'Aia, con il compito di delineare lo sviluppo della moderna fotografia ungherese dall'epoca della prima guerra mondiale alla fine degli anni '60; Nádas, prima di dedicarsi alla narrativa, fu infatti fotoreporter e fotografo professionista. 
Oltre ai ben noti Robert Capa, Brassaï, André Kertész, Martin Munkacsi e Eva Besnyö, nella mostra furono esposte anche opere di maestri meno noti della fotografia vintage ungherese. 
La mostra faceva parte del festival della cultura ungherese che si svolse nei Paesi Bassi con il titolo “Hongarije aan Zee”.
Péter Nádas curò quindi anche il bellissimo catalogo della mostra, pubblicato nel 2004 con il titolo: “Péter Nádas e la fotografia ungherese 1912-2003”.
Ne ho tradotto un breve passo:
«Il negativo deve essere posato su un vetro opaco inclinato fortemente illuminato dal basso, quindi con una matita morbida e appuntita deve essere accuratamente smussato e reso abbastanza scuro da eliminare la differenza ottica tra i toni più chiari e quelli più scuri visibili sul viso.
La matita nella mano di un bravo ritoccatore cancellerà, senza graffiare l'emulsione, i piccoli capillari, la ragnatela delle rughe e le macchie della pelle.
Invece il ritocco delle immagini positive e degli ingrandimenti deve essere eseguito utilizzando un pennello stretto, inchiostro cinese secco o, in alternativa, una lametta spezzata a metà diagonalmente.
Almeno, è così che facevamo quando, all'inizio degli anni Sessanta, ho imparato la fotografia in un grande laboratorio di Budapest.
Usando la punta acuminata del rasoio rimuovevamo dall'emulsione i graffi neri e le zone di tono più cupo, quindi, intingendo la punta del pennello tra le labbra e diluendo con la saliva gocce di inchiostro da ritocco, lasciavamo cadere piccoli punti e linee sulle superfici che avevamo danneggiato col nostro precedente graffio, così appianando quelle differenze di tono che non potevano essere completamente uniformate nel ritocco del negativo.
Ho lavorato accanto alla migliore ritoccatrice del laboratorio, una donna anziana, che aveva un numero tatuato all'interno dell’avambraccio e che ascoltava musica classica dalla radio a basso volume, mentre faceva il suo lavoro.
Non c'era un granello di macchia che non potesse rimuovere senza lasciare traccia, e aveva un'immensa conoscenza di quel lavoro. Mentre lavorava accanto a me e supervisionava la qualità del mio lavoro con tenera attenzione, spiegava di qualche opera o parlava di Auschwitz.
E nel suo tono di voce non si poteva cogliere che avesse cambiato argomento.
Riusciva a mantenere un certo distacco da tutto ciò che si trovava e accadeva intorno a lei.
Una volta, all'improvviso, osservò che, a parte l’arte, nulla in questa vita o nella storia ha un senso concepibile.»

Penso che, tutto sommato, è sempre meglio non ritoccare niente.
Le cicatrici. E certi numeri sulla pelle, anche.

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Questa è una delle fotografie della mostra. È di Klára Langer, si intitola “Karcsi”. 
È stata scattata nel 1944. Karcsi è il nome di una persona con una vita, una storia, una perdita.
Karcsi è un individuo che resta vivo e che vediamo qui fissato in un istante dal futuro del tutto indefinito. 
Il suo futuro è la sua vita, il suo istante è il segno che si incide nella memoria di tutti. 
Questa divaricazione tra il futuro e la memoria è la condizione a cui la trasformazione di una persona in simbolo non ne tradisce l'irriducibile individualità, non la cancella, non la stermina.
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