(Redazione) Dissolvenze - 01 - All'improvviso

 

A cura di Arianna Bonino
Se proprio dovessi finire nell’obiettivo della macchina fotografica di qualche scrutatore d’anime, l’ideale sarebbe non saperlo. E che lui fosse Miroslav Tichý.
I più bei baci sono quelli rubati e forse questo vale anche per le fotografie. 
Quelle dove non guardavi, quelle che ritagliano un particolare, un movimento, l'imperfezione di un istante che da qualsiasi diventa unico e irripetibile.
Tutte le modelle di Miroslav Tichý lo sono state senza saperlo.
Chi poteva sospettare infatti che quel clochard eccentrico e stralunato passeggiasse per le strade di Kyjov in cerca di movimenti da cogliere, di battiti inconsapevoli, di corpi ombrosi da tramutare in idoli carnali?
D’altronde tra le mani aveva soltanto uno strano oggetto a forma di reflex, ma costruito in cartone, plastica e corda. Un giocattolo inoffensivo nelle mani di un vagabondo un po’ folle. 
Tutto vero o quasi: un giocattolo, un vagabondo, la folle libertà di non possedere che i propri sguardi, sì. Ma sguardi che rubano l’anima, gli istanti, la natura più vera e intima di un corpo, di un momento, elevato a simulacro in un click.

Nato nel 1926 a Kyjov, (Cecoslovacchia allora, Moravia ora), trascorre una prima giovinezza gioiosa e rivela un'indole ironica, oltre a brillanti risultati negli studi.
Ama il disegno e l’arte e per questo motivo si trasferisce nel 1945 a Praga, dove si iscrive all’accademia d’arte con l'idea di diventare pittore figurativo.
Senza titolo, olio su tela, 1942
Sono anni complicati e segnati dall’aria soffocante della dittatura: fa giusto in tempo ad innamorarsi perdutamente della donna, della femminilità, del senso replicato e ritrovato in tutte le modelle ritratte, che arriva Lenin a scompigliare le carte; l’imperativo artistico diventa ritrarre il proletariato e celebrare l’Uomo Sovietico. Via le modelle, avanti i soldati.
Lui si rifiuta, si oppone. E’ un periodo cupo, che trascorre emarginandosi letteralmente dal mondo, in una Praga che lo ospita e assiste silenziosa al suo vacuo vagabondare.
Dopo aver svolto il servizio militare obbligatorio, rientra a casa e apre un piccolo atelier dove concretizzare il suo sogno: dipinge quel che vuole, come vuole, come dovrebbe sempre essere.
E come talvolta non si permette che avvenga: il regime comunista non tollera stranezze, lo bolla come sovversivo ed elemento da normalizzare, il che significa arrestare e sottoporre a ricoveri psichiatrici ripetuti quanto inutili, non essendoci nulla da “normalizzare”, se non libertà e talento, irriducibili al silenzio, quelli di Tichý .
Carcere, manicomio, manicomio, carcere. E ancora.
Quando ne esce, viene “restituito” al mondo nell’unica forma possibile dopo un tale ciclo di svuotamenti: come un emarginato. Ma un emarginato libero, che sceglie ancora e coscientemente di tenersi fuori da un mondo che contesta e decide di vivere come vuole, con le uniche cose che desidera possedere: la libertà, il suo sguardo sulle donne e una brutta e improvvisata macchina fotografica, da lui stesso costruita con compensato, pezzi di plastica, tubi di cartone come obiettivi, lenti ricavate da macchine fotografiche giocattolo o costruite col plexiglass lucidato con cenere, dentifricio e carta vetrata.
I suoi scatti sono sporchi, sfocati, imperfetti. Sono smagliature di luce, incursioni imprecise nel profondo che si coglie in superficie. Frammenti, dettagli, ombre.
Della vita hanno le macchie, le ferite, le cicatrici.
Sembra un innocuo e bizzarro barbone un po’ matto, che vaga per la città “convinto” di essere un grande fotografo. Insospettabile Tichý.
E così lui scatta, colleziona, accumula: scorci di gambe femminili che pedalano su biciclette in corsa, nuche dormienti al sole in un giardino pubblico, ragazze che ridono, donne che pensano, che aspettano qualcosa o qualcuno, ignare di essere al centro del mirino del desiderio e dell’occhio sedotto dietro una lente inventata con fondi di bottiglia. Scatti di istanti. Fotografie di momenti di passaggio da un gesto all’altro, da un pensiero all’altro.
Le sviluppa in modo altrettanto rudimentale e di ciascun negativo fa un’unica copia, perché sono solo sue, non fatte da un fotografo, ma da un uomo per il suo piacere di riguardare le donne, fermarle, amarle.
E sembra di vederlo, mentre attende che il liquido faccia emergere le forme, che via via si definiscano, lasciandosi sorprendere lui stesso da quel che si schiuderà in forma d’ombra e luce, senza raggiungere il nitore totale. Foto fatte di striscio, sfiorando la vita che passa sui volti e i corpi delle donne.
E’ il 1981 quando un vecchio amico (nonché biografo) di Tichý, Roman Buxbaum, scopre per caso quegli scatti privati e ne coglie la potente e lacera bellezza, mentre libera le fotografie dalla polvere, dalla consunzione del tempo: le trova gettate alla rinfusa, come si tengono i segreti che nessuno saprà mai, in un vecchio cassetto.
Sono foto abbaglianti, sonore, palpitanti, di una spudorata ingenuità. Cariche del desiderio di cogliere il pulsare intimo tutto in un breve istante, culminante e irripetibile.
Buxbaum capisce in un lampo che quello è uno scrigno di istanti, di cose preziose, da non continuare a dimenticare.
Ed è grazie alla sua cura che possiamo oggi coglierne tutto l’indelebile fascino.
Sono ormai dieci anni che Tichý ha lasciato questo mondo che ha voluto guardare da lontano, a pezzi, da scrutatore curioso e dolcemente ammiccante.
Ci lascia i suoi segreti. Non sono pose. Sono foto fatte di nascosto e all’improvviso.
Come il bacio più bello, il bacio che toglie il fiato e che non si scorderà mai più.
Quello che non ti aspettavi, quello rubato.







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Commenti

  1. Bel pezzo scritto con la consueta finezza. Grazie

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    1. Grazie Francesco. È bello sapere che ci sono attenzioni alle cose fragili della vita, le cose evanescenti. E incandescenti, come queste di Tichý. È un modo per proteggerle questo saperle e vederle insieme.

      Arianna Bonino

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