La linea d'ombra (su giudizio, corpo, silenzio e perdono)

Scrivevo sui social, esattamente un anno fa, queste parole:

Viviamo su una linea d'ombra sulla quale giocano, come note, le parole altrui.
E siamo sempre e solo noi a decidere se siano parole pesate o meno.
"Alle parole non pesate altrui non si dovrebbe dar peso".
Ne si dovrebbe dare alla sacra foglia l'onere della stabilità del santo tronco.
Siamo liberi, sempre liberi, di decidere ciò che è foglia e ciò che è tronco.
Così dovrebbe essere sempre.
Non resta che il ritiro (la sacra parola che si tace) e la speranza che ciò che non è compreso oggi lo sia domani.
Io non sono tagliato per il trivio e nemmeno per gli stigmi e gli epiteti.
Ci vogliono abilità oratorie e retoriche che a me mancano.
Per questo difficilmente giudico gli altri. Mi pesa farlo.
Giudicare bene gli altri è un'arte, non per cialtroni come me. Giudicarli male mi fa sentire un tacchino con pretese di volo d'aquila.
Preferisco cercare di spiegarmi, coi miei soliti inciampi, e con gli scarni strumenti linguistici che possiedo. E poi c'è il Silenzio, su cui, paradosso e ossimoro, ho scritto e continuo a scrivere. Il silenzio ha un potere taumaturgico enorme.
È il segnale di una fenice che risorge dalle sue ceneri.
Su un muro di Milano oggi ho trovato una scritta: "Abbraccia te stesso che al mondo ci pensi poi".
È la vis poetica dei milanesi, così bella, ironica e sottile che non l'ho fotografata.
Erano parole e non volevo tramutarle in immagine, che l'immagine, anche la più soave non dice mai il vero. Ma la parola sì, almeno quel tipo di parola. Abbracciate voi stessi, che lo so che non lo fate spesso. Prendetevi cura di voi stessi, che lo so che vi dimenticate troppo spesso di farlo; abbandonate il perpetuo rimbrotto. E fate lo sforzo di giudicare solo bene gli altri o di concedervi al più sensuale degli amplessi: quello col Silenzio.

Un anno è un tempo lungo e, se un tema ritorna, è forse per permetterci di ampliare lo spettro delle nostre riflessioni.
E, poiché semplici riflessioni vorrei che rimanessero, non mi adopererò a citare grandi pensatori anche se sono certamente cosciente che del tema del giudizio in relazione al silenzio si sono occupati menti eccelse, ben più della mia. 
A quel brano scritto di getto sui social, del quale confermo ogni virgola, vorrei ora aggiungere il dark side, il rovescio della medaglia. 
Perchè connesso al tema del giudizio c'è sempre il tema delle origini. 
Le strutture mentali si formano nell'età dell'imitazione e, se proveniamo da un ambiente famigliare anche solo parzialmente disfunzionale, in cui i parametri relazionali si fondavano sul giudizio, il percorso di liberazione da quegli schemi costringenti è molto lungo, benché possibile.
 
Io posso dire di aver camminato su quel crinale a lungo, e ne conosco tutti gli inciampi e cadute. 
E non nego che nella mia scelta di svolgere la professione di avvocato abbia pesato il desiderio di scardinare, anche se in minima parte, i disturbi creati dal giudizio. 
Era un perenne incitare me stesso a cogliere gli eppure, gli altrove delle situazioni e delle relazioni. 
Perchè il tema del giudizio, non lo si dice mai abbastanza, è legato alla piccolezza, allo sminuire
Ogni giudizio impone a un progetto (l'essere umano è progetto) che nasce con le intenzioni del grande affresco di rimanere nei limiti della piccola tela. 
Il giudizio sminuisce in re ipsa, dicevo, il suo oggetto proprio perché rifiuta di descriverne i contorni e le sfumature. 
E quando si tratta di quei macrocosmi che chiamiamo persone il giudizio, volente o nolente, porta con sé la ferita della reductio ad minimum.

Un corpo giudicato, lo vedo bene nella mia professione, è un corpo ferito. Sempre. 
Non a caso parlo di corpo. Ho praticato abbastanza a lungo le arti marziali e mi sono sufficientemente guardato allo specchio, per riconoscere al primo sguardo chi proviene da quei passati. 
La spalla retro-posizionata a protezione da chissà quale attacco, lo sguardo obliquo quasi di supplica ("Guardami, esisto. Guardami ma non troppo da vicino, che gli sguardi ricevuti sin ora erano per dire il male di me"), una perenne incapacità di lasciare nella quiete le mani, come se fossero portatrici di chissà quale peccato, il sorriso auto-imposto come a dire: "non importa, niente importa".  Tutti segni che sul corpo di una persona lascia il giudizio, se protratto nel tempo.

E quelle posture di un corpo, abituato troppo alla sopravvivenza e poco alla vita, li ho visti spesso trasformarsi in uno sforzo titanico di una seduzione perenne; in un gioco a dirsi perfetti per timore del giudizio. 
Il corpo giudicato è un corpo che non si guarda, che si specchia solo al buio, incapace di sopravvivere alla propria bellezza. 

L'anima piegata dal giudizio è un anima che anela al complimento ma mal lo sopporta, perchè: "so che prima o poi mi tradirai". 
E, per paradosso, il giudicato si volge lui stesso al tradimento, ne crea i fondamenti in chi non ne aveva alcuna intenzione, per poter dire a sé stesso che "in fondo era già tutto previsto, giudicato, anzi passato in giudicato: io non merito"

Perpetua, poi, il giudicato finte maschere di perfezione perchè incapace di percepire che possano essere amati i suoi limiti, le sue cadute e persino le sue defaillances.
E cura i particolari in modo maniacale (un giudicato non avrà mai le unghie sporche di terra), affinché vengano nascoste sempre più le loro tenere imperfezioni: perché diffida, anzi è certo, che nessuno sarà capace di osservare la sua interezza e amarla, come manifestazione dell'umano.
Il giudicato respinge chi gli si avvicina con animo puro per timore che poi colga una sua imperfezione e ne venga macchiata la sua intera immagine.  

Ogni giudizio, badate bene anche quelli positivi, comportano una rinuncia all'osservazione dell'interezza dell'oggetto. 
Non a caso sentirete spesso le persone giudicanti dire:  io non giudico la persona, giudico il suo comportamento. 
È spesso questo un semplice escamotage linguistico di chi, pur rendendosi conto del limite intrinseco di ogni giudizio, non riesce (ancora!) a rinunciarvi. 
E, altrettanto spesso, non si riesce a giungere a questa rinuncia perché per farlo dovremmo mettere in discussione gli schemi famigliari su cui ci siamo formati. 
È la stessa dinamica dell'abuso che vedo tanto spesso nella mia attività forense.
Nel giudizio è presente, certo diluita, la stessa molecola di violenza dell'abuso: "questo è ciò che ho ricevuto dalle persone che erano deputate a darmi il BENE, ergo questo è il bene, ergo così mi comporterò anche con le persone cui voglio indirizzare il mio bene". 

Così si crea la catena del giudizio e il mondo si popola sempre più - i social non fanno che ampliare il fenomeno - di maestrini e maestrine sempre pronti a giudicare l'Altro da sé, con una perizia inversamente proporzionale a quella di introspezione e ascolto di sé.

Dicevo un anno fa che il Silenzio può essere uno strumento utile a scardinare queste dinamiche. E lo penso ancora. 
Ma, dicevo, esiste un dark side. Il silenzio può ben divenire strumento di giudizio, anche pesante.

Nella descrizione dei silenzi il testo biblico è disarmante per crudezza. 
Accanto ai silenzi creativi, a quelli di rielaborazione dei vissuti, a quelli del progetto e della visione del futuro, a quelli legati alla percezione del divino, sono descritti anche quelli della malevolenza, della distruzione, del negare l'altro da sé ai propri occhi. 
Silenzio e Parola sono strumenti che l'Autore dei cinque libri sa poter essere sacri o distruttivi, a seconda dell'uso che se ne fa.

Il silenzio può diventare dunque strumento di rielaborazione del giudizio -dato o ricevuto in questa sede poco conta- quando si concreta in una rielaborazione profonda (e appunto silenziosa) del vissuto. 
Al contrario diventerà fonte di amplificazione del giudizio quando verrà usato come strumento per porsi sull'altare ieratico di chi ti fa intendere il proprio disprezzo con una semplice smorfia del naso (Talmud), non dedicandoti e non prendendo i rischi nemmeno di una parola di riprovazione (ogni parola ammette sempre replica per il pensiero ebraico).

Il silenzio che smussa il giudizio e ne amplia i confini, che permette - sia al giudicante che al giudicato - di sanare le proprie ferite e riappropriarsi del proprio essere unitario e intero, al contrario, porta diretto alla parola di riconciliazione e rimediazione; o a un silenzio con eguale valenza. 

Tutto il diritto, specie penale, si fonda su un binomio tanto importante quanto terribile da pronunciare. 
Azione (pensiero, parola) - Responsabilità
E certo, in quel  binomio è contenuto, senza essere citato, il giudizio. 
Ogni azione ha una conseguenza giuridica e, se illecita, porta alla pena. 
Ma il diritto non è una scacchiera e a quel binomio ha affiancato (e l'art. 27 della nostra costituzione lo fa egregiamente) un tertium.  Un fine. La pena è diretta alla riabilitazione del condannato. 

Come a dire: il fine del giudizio (penale) è l'uscita dal giudizio stesso e il rapporto tra azione e responsabilità non è meccanicistico. 
Il fine della pena è ridonare l'interezza al condannato e chiunque (per il diritto) ha diritto alla speranza della riabilitazione. Nessuno può essere sottoposto a giudizio se non dal suo giudice naturale stabilito per legge.

E, badate bene, non si ha diritto al perdono ma alla riabilitazione, che è altro e ben più profondo.  
Riabilitazione contempla la possibilità di tutti di cadere e risorgere, dopo lunghi percorsi. 
Perchè a niente e nessuno (nemmeno al Diritto) è dato di poter dire cosa un individuo sia, nella sua integrità e, soprattutto, nelle sue potenzialità. 
La perdiamo questa integrità, ogni giorno; il creato ci sfugge perché, paradossalmente, troppo piccolo e stretto. E abbiamo tutti un bisogno vitale di consolazione. 

Ma siamo anche dotati degli strumenti di rielaborazione più ricchi di qualsiasi altro essere vivente. 
Un uomo, una donna, sono molto più grandi della più grande delle galassie. 
Perchè di una galassia, benché distanti anni luce tra loro, potremo sempre disegnare i confini. 
Dell'essere umano no; anche quando cade - soprattutto quando cade - e il giudizio su di lui è facile.

Facile e superficiale, perché non tiene conto della sua capacità di risollevarsi.







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