Yom Kippur

Dipinto di Marc Chagall
Il ragazzo arriva trafelato in sinagoga. Crede ancora di poter rimediare agli errori della sua giovane vita in dieci giorni di rielaborazione e uno di digiuno.
Ha lo sguardo stralunato; occhi neri che vagano senza sosta da un oggetto all'altro, da un volto all'altro della sinagoga, come se cercassero qualcosa di ineffabile.
C'è un nodo che il ragazzo spera di risolvere in quella giornata di preghiera e ritiro.
Più ci pensa e meno “peccati capitali” gli pare di aver commesso, ma è sempre quel nodo a bussargli con insistenza nei pensieri.
Si presenta sempre con la stessa frase stentorea, come un giudizio concluso, una sentenza inappellabile già depositata: “L'ho gestita male, molto male”.
Poi segue una lista di atti di autoaccusa interminabile, sempre secondo la terribile formula degli
“avrei potuto-avrei dovuto”.
La condanna è inevitabile e anche il senso d'angoscia per una serie di errori che la sua rigida etica gli impedisce di evitare di attribuire solo a sé stesso.
La sinagoga è, come sempre per l'occasione, piena.
Si parla di affari, di salute, di figli che vanno avanti negli studi e di genitori anziani da accudire. Qualche coraggioso prega timidamente attento a non disturbare il chiacchiericcio generale.
Kippur, il giorno dell'espiazione, è per il popolo ebraico un giorno ilare e di rincontro.
Questo irrita il ragazzo che, ancora inesperto, ignora che la più profonda e antica forma di espiazione è l'ironia.
“Cos'hai in tasca?”, gli chiede il vecchio.
“Accidenti, ho dimenticato di lasciarlo a casa”, pensa il giovane ricordandosi che a Kippur è fatto “divieto di portare” cose con sé. Ci si presenta senza pesi davanti al giudice e soprattutto davanti al chiacchiericcio della propria gente.
“È una raccolta di poesie”, risponde il ragazzo arrossendo.
“Posso vederlo?”, chiede il vecchio con sguardo morbido
“Ma...”, balbetta il giovane
Il vecchio ride forte fregandosene degli sguardi di rimprovero dei suoi fratelli in sinagoga.
Se c'è una cosa che viene percepita come peccato capitale a Kippur è che una voce individuale si stacchi dal borbottio di fondo.
Si parla, sì (e tanto), ma sottovoce.
Una sorta di basso continuo che non ammette strumenti solisti su di sé.
“A Kippur è vietato portare cose”, dice il vecchio al ragazzo, “ ma in questo caso potremmo dire che la poesia ha portato te in sinagoga. Kippur è poesia. Sono certo che Lui capirà e poi, credimi, oggi ha ben altro a cui pensare; me lo fai vedere ora?”.
Nel finire la frase il vecchio si arrotola le maniche della camicia bianca.
Un numero tatuato sul suo avambraccio compare come un pugno nello stomaco del ragazzo che, senza dire nulla, gli consegna il libro.
Il vecchio guarda la copertina, legge il titolo e annusa la carta.
Poi apre una pagina a caso e legge, bisbigliando piano, i versi del poeta Mandel’štam
La sua voce bassa si armonizza alla perfezione col salmodiare in ebraico di alcuni; col vociare di figli e di cosa, finalmente, si mangerà a sera, di tanti altri.
"Bene", dice il vecchio, "mi pare che i suoni di questa poesia si mescolino bene con le chiacchiere di Madame Levi sulla cottura delle Challot e con il Kol Nidrei cantato dal nostro Hazan. Ottimo. Bene, bene. Direi che il primo test è superato. Passiamo al secondo?".
"Beh, veramente vorrei concentrarmi un po' pregare. Senza offesa ma c'è una cosa che devo risolvere oggi", risponde il ragazzo.
"Oh certo. Lo vedo bene che non sei qui solo per sentire dei successi scolastici dei figli del signor Alcalay. Tu sei puro, ragazzo. Fin troppo, oso dire. E va bene. Concentrati e prega. Io intanto continuo da solo col secondo test", dice il vecchio e comincia sussurrare piano un'altra poesia di Jabès
….
Ho lasciato una terra che non era la mia,
per un’altra, che più non è.
Mi sono rifugiato in un vocabolo d’inchiostro, avendo il libro per spazio,
parola di nessun luogo, quella oscura del deserto.
Non mi sono coperto la notte
Non mi sono protetto dal sole.
Ho marciato nudo
Da dove venivo non aveva senso.
Dove andavo non inquietava nessuno.
Dal vento, vi dico, dal vento.
E un po’ di sabbia nel vento
...
“Meraviglioso!”, urla il vecchio, tra sguardi nervosi della gente e imbarazzo estremo del ragazzo.
“Anche questa ha superato il test in modo egregio. La sua lettura si è conclusa nello stesso istante della preghiera che si sta recitando. Non può essere un caso, no? A te però lascio il test più importante, vuoi?”, dice al ragazzo.
“Ok, cosa devo fare?”, chiede incuriosito
“Leggi questa a voce bassa. Tra te e te, come fosse una preghiera sussurrata. Poi, quando hai finito chiudi gli occhi e dimmi cosa senti”, risponde il vecchio.
Il ragazzo la guarda. Anche questa è di Jabès:
L’albero volante
Nei boschi ci sono alberi:
è una cosa naturale.
Sugli alberi ci sono foglie:
è una cosa evidente.
Ma se le foglie sono ali,
ecco, questa è una cosa
per lo meno sorprendente.
Volate volate, verdi alberi belli.
Per voi si apre il cielo.
Ma attenti all’autunno,
stagione fatale, quando a migliaia
le vostre ali
tornate ad esser foglie
cadranno.
Il ragazzo legge, con voce sottile e incerta che lenta si mescola con quella del suo popolo.
La voce, che da mesi bussava alle sue tempie, il giudizio inesorabile su sé stesso, sulla sua incapacità di "gestire meglio" le proprie difficoltà cade, sotto la potente percussione dei versi.
Viene sgretolata dalla cadenza antica che i versi manifestano.
Le sue spalle, dopo mesi, si rilassano, mentre la lettura avanza.
Il vecchio ascolta concentrato, mentre i versi recitati dal ragazzo calano lenti, come pioggia, su preghiere e chiacchiere millenarie.
Il vecchio ascolta concentrato e il suo sguardo, perso, lontano, si riga di lacrime silenziose.
Il ragazzo conclude la lettura. Chiude gli occhi.
“Silenzio, signore. Sento solo silenzio”, mormora piano per non perdere quella sensazione.
“Ora puoi davvero pregare”, ragazzo, “ la grande poesia è quella che, una volta letta, lascia un grande silenzio da riempire delle nostre preghiere”.
Il ragazzo guarda il vecchio. I loro sguardi si scambiano informazioni preziose.
Ora il popolo ilare della sinagoga tace.
Sono tutti in piedi, rivolti a oriente.
Inizia la recitazione della Amidà; le sue diciannove benedizioni si nominano collettivamente in silenzio, o così piano da non riuscire a sentire nemmeno la propria voce.
Non ci sono le Challot della signora Levì o i figli del signor Alcalay, o meglio ci sono eccome.
Ma vengono narrati nel silenzio della preghiera.
Ogni ebreo, credente o meno, porta sempre con sé un anelito all'elevazione e dei piedi ben pesanti e radicati per terra.
E poi, col tempo capisce e unica elevazione è nel cibo che mangia, nei sorrisi che scambia, e nello sguardo sognante dei propri e altrui figli.
Dietro ogni preghiera ebraica, anche le più struggenti o incomprensibili, ci sono sempre anche le Challot e i figli delle varie signore Levì e Alcalay del mondo intero. Sempre.
Il ragazzo conosce le diciannove benedizioni a memoria, e eppure oggi hanno un suono diverso.
Guarda ancora il vecchio, osserva in silenzio, senza saper cosa dire, il numero tatuato sul suo braccio.
Il vecchio gli sorride con affetto.
“Tempo fa, ragazzo, i nostri giovani non portavano poesie in tasca e io non potevo parlare loro del silenzio che segue la loro lettura, né della preghiera con cui riempirlo. Eppure c'era tanta poesia nei loro occhi spenti, e pregavano ogni istante per l'istante successivo.
Sono certo che Lui capisce e ride. Ride sempre lui. Ha un bisogno terribile e vitale di ridere, Lui, e forse ha inventato lo Yom Kippur per questo.
A volte ride quando non dovrebbe. E questo è un conto in sospeso tra me e lui. E sono venuto a regolarlo qui oggi. E lo farò grazie a te e al tuo libro.”
La voce del vecchio si è alzata e, nel silenzio totale, sembra una nota stonata.
Un signore di mezza età dall'aria contrita si gira verso di loro con sguardo di rimprovero, quasi a zittire il vecchio.
Lui lo guarda e sorride. Guarda il numero tatutato sul suo braccio e sorride. Guarda il giovane che ora prega dondolandosi piano in silenzio e sorride.
Sfoglia il libro, lo annusa, trova la poesia che cerca e comincia a recitarla a voce alta, aggiungendo alla fine di ogni verso delle parole sue.
La gente si gira irritata. Come osa?
Anche il rabbino lo guarda. Poi vede il numero sul suo braccio a fa cenno a tutti di non dire nulla, anzi si indica le orecchie come a esortare la comunità ad ascoltarlo.
La poesia di Jabés diviene così un atto di testimonianza del vecchio che tutti ascoltano, quasi fosse la ventesima benedizione.


Caduto è il giorno - (a milioni di giorni e notti senza stelle e nomi)
come un grido muto. - (o era sordo il tuo orecchio?)
Non amo i gridi. - (ma loro sì, li amavano e ridevano, ridevano, ridevano)
Caduto è il giorno
(e la mia speranza prima di oggi)
come un sole muto.
(nella tasca di un giovane il verbo del sole)
Non amo la notte.
(ma loro sì, e ce ne hanno imposta una che ancora dura)
Questo giorno che avvampa
(negli occhi di un ragazzo che legge per noi)
nel mio dolore.
(e stempera il ricordo, e osserva le parole di un pazzo e ne fa tesoro)
Caduto è il giorno
(ma non la voce, no. Non la voce)
come un uccello stremato.
(ora vola nella tasca di un giovane)
Non amo la terra.
(eppure allora fu la nostra unica salvezza, la terra...la terra)
Caduto è il giorno
(cadranno le Tue risate, come pioggia che cancella l'inchiostro sul mio braccio?)
come un vecchio sogno.
(come un vecchio segno)
Non amo il mare.
(eppure allora per un goccio d'acqua mancato ho visto gente morire)
Questo giorno
(il primo giorno, perché oggi luce fu)
che muore
(già muore e rinasce, questo popolo tuo, e innalza benedizioni che portano Challot e i figli di Alcalay nel firmamento)
negli occhi.
(di mia madre)
Caduto è il giorno
(e con esso, in un istante, si è spenta la voce dei miei fratelli)
in mezzo alla strada.
(non erano strade, era fango, liquame, sporcizia)
Nessuno l’ha raccolto.
(eh no Jabés, l'ha raccolto un ragazzo nella sua tasca oggi. E se vedessi ora i suoi occhi sapresti che è un Giusto tra i Giusti. E gli carezzeresti la nuca e gli diresti che la poesia la, la vera poesia è quella che, una volta letta, lascia un un profondo silenzio da riempire delle nostre preghiere).


Il vecchio trema. Enormi vibrazioni scuotono il suo corpo.
Il ragazzo gli pone una mano sulla spalla.
Tutta la comunità si stringe attorno a lui.
Corpo contro corpo.
Calore su calore.
In silenzio.
Il rabbino intona un Kaddish.
Non previsto. Nessuno obietta nulla.

"Sia magnificato e santificato il Suo grande nome, nel mondo che Egli
ha creato conforme alla Sua volontà, venga il Suo Regno durante la
vostra vita, la vostra esistenza e quella di tutto il popolo d’Israele,
presto e nel più breve tempo.
Sia il Suo grande nome benedetto per tutta l’eternità. Sia lodato,
glorificato, innalzato, elevato, magnificato, celebrato, encomiato, il
nome del Santo Benedetto. Egli sia, al di sopra di ogni benedizione,
canto, celebrazione, e consolazione che noi pronunciamo in questo
mondo.
Su Israele e sui nostri Maestri, sui loro allievi e sugli allievi dei
loro allievi, che si occupano della santa Torà, che si trovano in
questo luogo e che si trovano in qualsiasi altro luogo, vi sia, per
noi e per voi, pace e grazia e pietà e misericordia e alimento in
larghezza da parte del nostro Dio, Signore del cielo e della terra
e dite, Amen
Scenda dal cielo un’abbondante pace ed una vita felice su di noi e su
tutto il popolo d’Israele. Colui che fa regnare la pace nell’alto dei
cieli, nella Sua infinita misericordia la accordi anche a noi e a tutto
il popolo d’Israele. Amen."

"Ora ridi, ridi pure. Nei hai facoltà", sussurra il vecchio. E non si sa se si rivolga al giovane o ad Altro.

Sulla sedia al suo fianco il libro delle preghiere e quello di poesie.
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"La grande poesia è quella che, un volta letta, lascia un un profondo silenzio da riempire delle nostre preghiere”




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