(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 25 - "Poétique propre" - su "RadioGrafie" raccolta poetica di Giulio Maffii (Il Convivio Editore, 2022) - nota di lettura di Sergio Daniele Donati

A cura di Sergio Daniele Donati


La parola non nasce degna,  pulita. Il francese conosce una locuzione molto interessante che lega la pulizia al senso di sé: être propre nella lingua di Stendhal e Proust significa certo essere puliti, ma è una pulizia che ci rende capaci di stare dentro noi stessi e appropriati per il mondo.
La parola non ha questa qualità intrinseca, sorge da fanghi e mugugni strani e se acquisisce nettezza e luce è grazie al lavoro paziente - artigiano e sperimentale -  del poeta. 
Scrivere, in fondo, è anche saper dare lucentezza a una pietra grezza e sporca in modo da renderla, quasi lo fosse ab origine, lucente e netta. 
Sicuramente questo lavoro di nettoyage comporta per il poeta grandi doti di pazienza e di capacità immersiva nelle profondità di ogni singolo lemma, di ogni singola parola delle sue composizioni.
Saper togliere strati su strati di depositi inutili è cosa che molti pretendono di fare ma che ben pochi in poesia contemporanea dimostrano di essere in grado di svolgere. 
È certo, però, il caso di Giulio Maffii, che con la sua raccolta RadioGrafie (Il Convivio Editore, 2022) ci presenta una scrittura in cui l'intenso lavoro di pulizia e burattatura della parola è ben presente. 
L'essenzialità del dire non può essere in poesia una semplice manifestazione d'intenti; deve, al contrario, pulsare in ogni passaggio, ampio o angusto che sia, della versificazione. 
E questo lavoro, che immagino essere stato davvero meticoloso e lento, l'Autore ce lo mostra senza sosta in ogni suo componimento.
Non è tanto della brevità delle singole composizioni che sto parlando. Questo è un elemento che si trova spesso nell'attuale poesia. Raro invece è uscire, come in questo caso, dalla lettura di una composizione con una martellante frase  - e certezza - in testa: "e non c'è altro da dire". 

Al contrario della composizione in Haiku che, pur breve, gioca proprio sulla presenza costante di un non detto fecondo, Maffii sembra in questa raccolta scrivere poesia così come antichi popoli incidevano rune sulla pietra. 
Quello del poeta è qui un atto di testimonianza a cui nessuna parola deve essere aggiunta, perché non venga diluito un senso che l'Autore vuole mantenere denso e, per l'appunto, propre, pulito e vicino a sé stesso.

Allo stesso tempo, in una alchimia che usa ingredienti sia quasi infantili che quasi esoterici, il poeta si diverte a farci intuire un prima con una struttura linguistica particolare. 
Ogni sua composizione (o quasi) inizia con la congiunzione che.
A cosa congiunge un che iniziale se non a ciò che è prima dell'incisivo detto del poeta?
E di quel prima noi, come lettori, non possiamo conoscere il contesto e il dominio. 
Osservate ad esempio la composizione che segue.

che cercare l'origine del nostro odore
di arancia selvatica messo dentro altre ore
[mai fatte o da fare]
mentre ti lascio ardere nel bianco e andare

Se la osserviamo bene quella congiunzione potrebbe essere legata a una infinità di registri che, se esplicitati, cambierebbero - e di molto -  le nostre vie interpretative. 
Qualche esempio per gioco?
Immaginiamo la poesia preceduta da:

È preferibile respirare...
oppure
È triste il ricordo di ciò che fu invece...
oppure ancora
Era una voce lontana a dirmi/di fare un passo invece...

Mi scuserà l'Autore se ho affiancato indegni balzelli di parole ai suoi sublimi versi, ma mi premeva far comprendere che ciò che è netto, limpido e "propre" nel  suo verso affonda le proprie radici in un non detto fertile che ci lascia immaginare non una, ma infinite complessità. 
Ho usato due aggettivi sopra per definire questo escamotage linguistico. Vorrei specificarne il senso ora.
Siamo in presenza di un gioco che è allo stesso tempo infantile ed esoterico e che, pertanto, ci restituisce tutta la pienezza della serietà dei giochi dei bimbi; allo stesso tempo rende onore alla parola proprio nella sua origine silenziosa e di non detto.

La parola non nasce degna, né pulita ma i fanghi che la ricoprono sono vitali proprio al suo nascondimento e il poeta sa che nel pulirla di quei fanghi si deve lasciare traccia e ricordo, perché non sia mai detto che una parola di verità e luce sorge dalla luce stessa. 
Quel che su cui il poeta, con tanta abilità, gioca, non fa altro che ricordarci che l'intuizione poetica - e per chi vi scrive ogni intuizione - tende alla luce, certo, ma sorge da una penombra boschiva da cui traiamo il rispetto anche, e soprattutto, per ciò che decidiamo di non dire, di non scrivere, di lasciare coperto di fanghi nutrienti.

Una raccolta quella di Giulio Maffii che ci riporta al senso profondo ed etico del nostro rapporto con la parola proprio nel suo indicarci il legame tra il detto e i terreni umidi e nascosti da cui la parola stessa sorge. 

Per la Redazione de Le parole di Fedro
il Caporedattore -  Sergio Daniele Donati


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NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Tra i lavori di Giulio Maffii ricordiamo: il saggio breve “Le mucche non leggono Montale” (2013), “Misinabì” (2014), il saggio “L’Io cantore e narrante dagli aedi ai poeti domenicali: orazion picciola sulla parabola dell’epos” (2014), “Il ballo delle riluttanti” (2015), “Giusto un tarlo sulla trave” (2016) e “Angina d’amour” (2018). Nel 2020 il saggio : “Con i piedi in avanti: la lunga passeggiata di anthropos e thanatos tra poesia e vizi simili”. Nel 2021 dopo “RadioGrafie”, il suo ultimo lavoro di poesia visuale edito per Pietre Vive “Sequenze per sbagliare il bersaglio”. Nel 2022 “Atletico sull’Atlantico” e per “Arteidolia” di New York una serie di 5 lavori di poesia visuale e nel 2023 sulla rivista olandese “Expanded field”, l’opera sempre visuale, “The sentence”.
Scrive e collabora con la Compagnia teatrale Bubamara Teatro.
È docente di storia contemporanea presso il corso di laurea in Scienze giuridiche della sicurezza.
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