(Redazione) Nota di lettura sulla silloge "Il sentiero del polline" di Guglielmo Aprile (Kanaga ed.)

 

Il sentiero del polline (Kanaga ed) è la nuova raccolta poetica di Guglielmo Aprile, poeta che si pregia già della pubblicazione di diverse altre raccolte di valore. 
La scrittura dell'autore in questa si caratterizza per un marcato richiamo alla relazione tra l'elemento naturale e una spiritualità umana e non necessariamente teistica che si sente pulsare all'interno dell'intera raccolta, quasi che l'elemento naturale divenga simbolo di una traccia umana evidente. 
Non a caso il titolo stesso della silloge si richiama ad una espressione della spiritualità nativo-americana, che tutti noi sappiamo caratterizzarsi per il valore, simbolico, di vita e di percorso che viene dato alla Natura. 
Così ad esempio  in Stella nomade  leggiamo:

Voglio sentire solo
le foglie secche che crepitano 
docili ai miei passi 
mentre accarezzano il suolo
lievi, fedeli al vento, 
e i concerti dei passeri 
lontano dalla gente 
e dalle sue parole,
sul viso nient'altro che il tiepido
abbraccio del sole; (...)

Senza riportare l'intero lungo testo della poesia, mi preme in questa sede rimarcare come nel passaggio sopra descritto sia presente un punto centrale della poetica dell'autore. 
Viene qui descritto un cammino umano delicato ( docile ) nella natura, e nei suoi cicli. La foglia secca viene fatta crepitare da passi leggeri e consapevoli dei ritmi della vita e del suo alternarsi con la morte, e il passo di consapevolezza diviene carezza e leggera presa in carico della propria stessa coscienza di esser parte di un tutto molto più ampio delle nostre stesse parole.
Da qui una necessità quasi sciamanica di allontanamento e ritiro dall'umano per cogliere l'universale, ove persino la parola umana, forse troppo umana, può divenire elemento di disturbo per il percorso stesso.

Altrove l'autore sembra far sua una capacità invocativa non indifferente, una abilità di chiamata potente e morbida dell'elemento naturale a sé, in una sorta di preghiera di esser portato via da luoghi troppo angusti per permettere un respiro ampio ed universale sul creato. 
Ad esempio in  Vento, portami via leggiamo:

Vieni a cercarmi, vento,
nelle notti d'estate che più ampie
fanno attesa del sonno e solitudine;
setaccia i borghi, stanami
dal guscio di tufo dei vicoli,
rivolta l'ossario d'asfalto, e portami
il tuo tiepido dono,
il tuo odore di alghe
e pietre bruciate, di legno
e aghi di pino (...)

La poesia, che continua a lungo in questa magnifica invocazione, ha qui il ritmo lento e da nenia che chi ha percorso vie spirituali legate al naturale conosce bene. Nulla cede alla chiamata come imposizione della potenza umana sulla natura e conseguente assoggettamento del naturale, anzi, è la delicatezza delle immagini che evoca il loro potenziale liberatorio da un vivere umano angusto. Ciò che viene chiamato con delicatezza, in più di una via sapienziale, è ciò che getta semi di consapevolezza vera e diviene messaggio universale. 
Per questo la raccolta di Guglielmo Aprile, pur richiamando nel titolo vie che chi vi scrive conosce troppo poco, smuove nel lettore messaggi lenti, lasciati sedimentare goccia a goccia, che non hanno bisogno di esser tradotti in percorsi specifici, ma che parlano all'uomo della sua esigenza universale di ancorarsi, attraverso il  contatto con la natura, ad un altrove fecondo.

per la redazione de Le parole di Fedro
Sergio Daniele Donati

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