Nella Fucina della Parola



Che poi si cerchi anche il plauso
dalla Fucina della Parola
è cosa certa e antica.
Un dire diretto per colpire
in chi legge
la vertebra dell'assenso.
O, al contrario, un parlare sommesso
lasciando intendere vi sia ben
altro di non detto;
solletico, questo, all'articolazione
malsana della curiosità.

La parola è costituita di materiale neutro,
prezioso e grezzo nella Fucina della Parola;
e là parlare (o scrivere) senza porsi
il problema del limite
(del detto o del taciuto),
così rispondendo solo ad una legge
antica e piccola
che ci vuole schiavi di
ciò che pretendiamo di dominare,
è permearsi di una piccolezza
che non giova a chi scrive,
né a chi legge,
né alla parola.

L'Artigiano, pur miope, nella fucina
raccoglie la gemma grezza e la pulisce
da detriti millenari;
bisbigliando formule sacre e antiche
che ne risveglino il potenziale
di stella o il ritmo costante
della risacca del mare
o profumi mediorientali
d'eucalipto o mirto.

Si dimentica l'Artigiano
d'avere un nome, degli armenti, una famiglia,
e la casa piena di contenitori cartacei
dei suoi manufatti.
Perché ogni stella chiede un tributo
e nessun astronomo,
quando osserva i moti perpetui
di corpi celesti e galassie
si ricorda di come si chiama.

Nella Fucina della Parola
l'immensità del dire,
(prima d'ogni seduzione,
prima d'ogni confronto,
prima d'ogni balzo),
riceve vie strette
e gli utensili ne limitano il campo.

L'immensità deflagrante di una parola
viene fatta passare da cannucce e pennini angusti,
diviene tratto segno sottile,
giuntura e articolazione,
perché non debordi,
e non strusci nel reame delle intenzioni
bave di lumaca.

Nella Fucina della Parola si ride
della domande mal poste,
dei dubbi ciolpacchi e imbranati
dei ragazzi di bottega.
Ne ride il Mastro Artigiano
con benevola attitudine,
attendendo che sia avvolta dall'oblio
ogni questione sull'origine della scrittura.

“Da dove viene la mia scrittura”,
chiede il ragazzo di bottega.
Il Mastro tace e sorride e osserva il suo pennino
farsi un po' più largo.
“Attento ragazzo, l'inchiostro
sta macchiando il foglio”, risponde;
e canticchia fra sé e sé un'antica filastrocca
che parla d'un cavaliere
che chiamava sua la spada che lo trafisse
e la donna che rivolgeva
sguardi di celeste desiderio
al menestrello di corte.

Nella fucina delle parole agli agi
si preferiscono i ritiri.
Un lathe biosas che non è mai solo
la malcelata incapacità di urlare.
Il ritiro nella Fucina della Parola
non è mai dichiarato.
È esso stesso celato.

C'è una stanza segreta nella fucina
cui solo il Mastro Artigiano
ha accesso.
In quella stanza si trovano
tante scatole di mille colori
ove hanno dimora
le parole sacrificate, non elette,
non scelte
per permettere a una sola di trovare
la via dell'inchiostro.

Ad ogni plenilunio il Mastro Artigiano
in solitudine
apre quelle scatole
e recita lodi di ringraziamento
per chi si è fatto piccolo
per permettere all'infimo
di farsi strada nelle costellazioni del dire.

La Fucina della Parola regala doni
sacrificali al mondo da millenni,
senza cercare di colmare
l'incolmabile abisso
tra l'indicibile e il detto;
e ci sono odori acri
nella Fucina della Parola.
Trovano vie d'elevazione antica
materie povere
e si nascondono gli ori in scatole celate
accessibili solo a chi ha saputo
dimenticarsi dei propri armenti
per fondare stirpi di devoti
discepoli (della parola).






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