Il vecchio ed i giovani








Il vecchio si sedette, come ogni sera, allo stesso tavolino, ordinò la stessa grappa, accese la stessa pipa e cominciò, come ogni sera ad osservare la gente.
E attese, fino a che la stessa compagnia di giovani sognatori entrò nel locale.
Era ormai un appuntamento fisso.

Un uomo solo. Un uomo felice della sua solitudine. Un uomo che aveva di sé una buona compagnia.

Era uno strano spettacolo da gustare, tra il dolce e l'amaro, tra il forte ed il tenue.
Uno spettacolo che teneva sullo sfondo il brusio degli altri frequentatori del bar.

Tutto era così struggente, così immensamente struggente.
Come ogni sera, i giovani cominciarono, prima timidamente, poi sempre più insistenti a chiedere al vecchio che raccontasse loro una storia.
Alcuni desideravano ascoltare la stessa storia delle serate precedenti, lo stesso racconto dalle infinite sfumature che potrebbe aver titolo “la vita di un uomo”.

I simboli che sottostanno alle parole mutano, quasi impercettibilmente, anche dietro una semplice diversa intonazione del racconto. Questo i ragazzi lo intuivano.
Questo il vecchio lo sapeva, costretto com'era due pulsioni antitetiche della sua vita, tra due forze che da sempre avevano governato il suo agire. Narrarsi e tacere.

Il vecchio sorrise. Abbassò pudicamente lo sguardo.
Poi si ricordò di quello che diceva il suo amico, troppo presto scomparso.
Assunse una postura più eretta, uno sguardo più intenso ed indefinito.

Così, in silenzio, rimase per qualche eterno istante, come se stesse cercando nuova ispirazione per il racconto. Ma quella sera tutto era diverso.
La presenza stessa dei giovani sognatori riportava alla luce sensazioni che ormai egli credeva sepolte.
Aveva ben chiaro a quale esigenza corrispondesse la loro richiesta di narrazione.
Ma non una parola fuoriusciva dalla sua bocca, amplificando l'attesa ed il desiderio che il flusso narrativo avesse inizio.
Eppure il racconto era già cominciato.
Non tutto passa attraverso l'espressione verbale. Questo il vecchio lo sapeva bene.
La pratica della sua vita, gli insegnamenti ricevuti lo avevano convinto che niente è più vero dei propri gesti quotidiani, che vana è la ricerca di grandezza verbale, perché la magnificenza della vita si esprime in ogni movimento del corpo, perché immenso, e non semplicemente grande, e il nostro vivere, il nostro respirare.
Il suo racconto, quindi, vestiva gli abiti della linearità gestuale, come portare il bicchierino di grappa alla bocca, come tirare boccate dalla propria pipa, gettando al cielo volute di fumo, quasi fossero misteriosi e virili legami con una energia primaria.
Comunicare il proprio mondo con un gesto, non solo è possibile, ma un fenomeno necessario.
Un gesto può raccogliere l'interezza di un uomo. Una voluta di fumo può raccontare la storia dell'intera umanità.
Si può comprendere dall'autenticità di un gesto la delicata e fragile forza che un uomo esprime nel suo semplice stare in vita, in equilibrio instabile.
Per comunicare se stessi, non bisogna far altro che vivere.
Per esprimere ciò che si pensa di essere o, ancor meglio, ciò che si vorrebbe essere, bisogna al contrario parlare o scrivere.
L'insistenza dei giovani, tuttavia, denotava dell'altro.
Il fuoco brucia, perché è nella sua natura ardere.
E con tenerezza immensa il vecchio accoglieva in sé quella così pura pulsione giovanile, quel desiderio così sublime di una giovane mente di essere narrata attraverso le storie altrui.
Un giovane ha troppo poco passato perché la sua storia possa essergli sufficiente.
E poi esiste altro, molto altro. Esiste ad esempio la difficoltà di eleggere una persona come proprio narratore. Questo il vecchio lo sapeva.
Sapeva della fatica di riconoscere che si è imparato, che si vuole imparare da un'altra persona.
Sapeva anche dell'immensa gioia che scaturisce nel momento in cui si accetta questo.
Gioia, solo gioia. Non arrendevole passività. Imparare è anch'esso un fenomeno necessario, avviene che lo si voglia o meno, succede anche se alcune nostre false immagini ci dipingono come immobili, respingenti il cambiamento.
Il vecchio sapeva bene che il cambiamento, la trasformazione avviene quando deve avvenire, non un istante prima, non un istante dopo.
Certo la coscienza è un'altra cosa; aprire gli occhi al cosmo, anche minimo, dei nostri gesti, e di quelli altrui, è altro. Ma tale cosmo esiste, che lo si voglia vedere o meno.
Comprendeva il vecchio, che essere giovani significa amare le parole, amare se stessi, scoprirsi nuovi, perché capaci di ascoltare, di perdersi nelle favole altrui.
Anche il suono di una voce, poi, è sempre fonte di emozioni. Ascoltare la voce altrui significa darsi la libertà di comprendere i propri meccanismi interiori.
Tutto questo il vecchio lo sapeva bene, perché anch'egli era stato tempo addietro mosso dalle stesse pulsioni, dall'eterno bisogno di sentirsi pieni, coperti di lemmi, di parole, di suoni.
Sapeva quanto possa pesare per un giovane l'insufficienza dell'oggi, e quanta fatica si spenda nella vana ricerca di un altrove, del non vissuto.
"Come se tutto questo non fosse presente anche se sto in silenzio" pensava il vecchio.
Poi, come mosso da un ricordo molto antico, si alzò, sorrise ai giovani, e se ne andò.
I giovani lo seguirono con lo sguardo, un po' attoniti, un po' storditi dal mancato racconto.
Tuttavia, nel loro intimo, intuivano di aver appreso una lezione, forse la più importante della loro vita.
Mentre pagava la grappa al banco il vecchio sentì, flebile ed intimidita, la voce del ragazzo più giovane, dai ricci neri e gli intensi occhi da poeta, sempre silenzioso e sognante dirgli “grazie”.
Percorso da un brivido lungo la schiena, il vecchio si voltò. I loro sguardi di riconoscimento reciproco durarono un eterno istante.
" Ti auguro di poter mantener saldo quello sguardo tutta la via. Lo auguro a tutti voi”, disse il vecchio.
Il ragazzo si alzò lentamente e giunto vicino a lui gli diede in dono un nera pietra d'ossidiana che teneva sempre in tasca (1)









1) In ebraico piccola pietra, sasso si dice EBEN. E' il simbolo della trasmissione. La stessa parola infatti è composta da un chiasmo fra AV (padre) e Ben (figlio). E' per questo che sulle tombe dei cimiteri ebraici si usa mettere dei sassolini, simbolo dell''mperituro legame che ogni trasmissione, dono di sè agli altri rappresenta

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