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Simmetrie

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Seduto, la schiena dritta, solo al tavolo, tace.  La simmetria delle sue posate trasmette un senso di immutabilità o di disturbo possibile.  Nessun gesto di nutrimento può avvenire senza che quella simmetria venga interrotta, spezzata, distrutta.  Il bicchiere di vino rosso, non viene toccato e il suo livello di riempimento corrisponde esattamente ad un terzo di quello della caraffa d'acqua frizzante al suo fianco.  Guarda nel vuoto.  Pensa? Ricorda? Progetta? Non so dire.  La simmetria dei suoi silenzi non può essere spezzata da una interpretazione esterna.  Semplicemente tace e, forse, ricava, da quel silenzio il senso profondo del suo vivere.  Il vociare del locale – ne sono certo – non è per lui di nessun disturbo.  Sono su un altro piano le sue riflessioni. Un piano inclinato, obliquo, ruvido e tenace.  Lui ci si aggrappa, come lo scalatore su una parte verticale quasi liscia, approfittando di ogni minima asperità del muro per tenersi nel vuoto.  Per non cadere nell'abisso

Quando danzai la danza della purezza

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  “Sergio Donati, passaggio di secondo Dan”, dice il Maestro.  Seduto in Seizà, saluto alla giapponese e mi metto al centro del tatami.  “Tecniche in piedi. Tre Ukè (attaccanti)”, dice il Maestro.  Le mie mani diventano calde e lo sguardo si posa sull'orizzonte. Lontano.  Saluto, in piedi gli Ukè.  Posizione di profilo. Perfetta.  Il primo prova una presa al polso. Esco dalla linea d'attacco, e entro sul suo asse verticale col gomito. Lo proietto lontano da me. Un perfetto Joko Irimì, una delle mie tecniche preferite.  Il secondo mi attacca alle spalle. Faccio un veloce spostamento indietro. E lo proietto, facendolo girare attorno la mia schiena. Koshì Nage.  Il terzo mi porta un veloce Tzukì (pugno centrale) al petto.  Esco dalla linea d'attacco. Faccio una serie di leve su polso e spalla e lo immobilizzo a terra. Quando lo libero ci guardiamo e sorridiamo. Ci guardiamo e ci guariamo.  “Bokken”, la spada di legno, dice il maestro. Due attaccanti.  Mi giro e gli sorrido, me

La danza di Ama-no-Uzume e del figlio della luna

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Io l'ho vista. Io c'ero.  Mi chiamano Tsuki no musuko, il figlio della luna, e i miei occhi non vedono.  Mi siedo sulle rocce e suono il mio Shakuhachi, il flauto di bambù, per chiamare le assenze.  E la vista, quella del flauto, mi guida e porta immagini da lontano, oltre l'oceano.  Ascolto incantato tra una nota e l'altra la risposta degli dei.  Mi chiamano Tsuki no musuko, il figlio della luna, ma io non conosco il mio vero nome.  Nè so da quale grembo io sia uscito.  So solo che il mio Shakuhachi canta e incanta.  E il mio fiato, così dicono, porta zefiri dorati nei boschi.  Le foglie, sì le foglie rosse, sotto i miei piedi mi raccontano storie.  Melanconie, rimpianti dei rami, desideri impossibili di tornare ad attaccarsi alla vita.  E suono per loro il mio flauto come a dire: “tornerete, sotto altra forma, alla vita. Tornerà in voi, attraverso voi, la vita. Ora è il momento del riposo”.  E la volpe rossa, tutte le sere al tramonto, si ferma immobile ad ascoltarmi

La danza del vecchio

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    Sibelius Violin Concerto - Maxim Vengerov, Daniel Barenboim È un vecchio. Porta la barba bianca e cammina per le vie del ghetto. Lo sguardo allucinato. E ferma i passanti, tenendoli per il braccio. Una stretta forte. "Dov'è?", chiede "Dov'è l'anima mia". Poi si china a terra e sbatte i pugni sulla terra. Secca. "Dov'è l'anima mia?”, ripete. La gente lo guarda, impietosita. La gente lo guarda. Impietrita. Il vecchio si alza, lo sguardo verso il cielo. “Dov'è l'anima mia”, urla. La gente non sa cosa fare, cosa dire. Guarda il vecchio con gli occhi velati di lacrime. “Dov'è l'anima mia?” Mordi, il violinista arriva da lontano. Strascicando i piedi.  Coi suoi occhialini tondi e la barba incolta color di cioccolato. Il vecchio scuote la testa come a dire: “no, no, no”. E ripete piano, come se fosse una litania, una nenia, una preghiera: “Dove sei, anima mia?” E si dondola piangendo. “No, no, no, dove sei fuggita, anima mia”.

La lenta danza di una donna e il mare

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Guardo il mare e mi accorgo di quanto pesi la mancanza del tuo sguardo sulla mia schiena.  Guardo immobile il mare, che immobile non è mai, e sento la pelle scottare.  Proprio sulle spalle dove hai posato le tue labbra prima di andartene.  E un'onda, e poi un'altra e i piedi sulla sabbia.  E io, no, non piangerò.  Non piangerò l'assenza della tua parola, il tuo volare via come un gabbiano, senza nulla dire.  Come se andarsene fosse un gesto dovuto, inesorabile.  Come se l'assenza di spiegazioni fosse un segno di saggezza.  Le parole, anche quelle inutili, sono essenziali per sopravvivere.  Ma io, no, non piangerò.  E ad ogni onda sposterò i miei piedi sulla sabbia.  Solo pochi centimetri, ad ogni onda.  E ogni onda, e ogni centimetro sulla sabbia, saranno le parole che non mi hai detto.  Inutili, necessarie.  Perché c'è molta più saggezza in un'onda e nei miei piedi e nella sabbia che nel tuo volo di gabbiano.  Tu non hai radici. Io le mie radici le faccio danza

La danza di Maia, la ninfa (e Zeus)

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Sono scesa dal cielo, ho lasciato le mie sorelle perché il Sogno mi ha detto che qui ti avrei incontrato.  Sono poi uscita dal Sogno perchè il cielo mi ha detto che non esisti.  E guardo i miei piedi sul muschio e respiro, tra cielo e Sogno e mi incanto, perchè lontano, troppo lontano, so che invece esiste un luogo dove Sogno e cielo fanno l'amore.  E i miei piedi prendono la forma delle foglie. E respiro.  E alzo il palmo della mano sinistra all'altezza dei miei occhi e il mio volto si adombra, gli occhi si velano e canto piano l'uscita dal Sogno.  A nulla valgono i riflessi di stelle nelle mie pupille, a nulla.  E muovo il primo passo. E la schiena si raddrizza, lo sterno si allinea alla cinta di Orione, e monta, monta, monta la rabbia.  Perché troppo a lungo ho sognato.  E il secondo passo, più deciso, pesta forte contro il muschio, come una mazza contro il tamburo, e poi salto. Cado a terra. Mi rialzo e salto ancora. E ogni volta che cado (e mi rialzo) pezzi di Sogno ve

La danza di K.

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  La lucida determinazione di chi ha scelto. Sguardo piantato sull'orizzonte. Come un chiodo. Piantato fino alla capocchia sulla linea d'ombra dell'orizzonte.  È morto il re. Viva il re.  Dietro le schiere. Davanti il chiodo.  "Io lo conosco quello sguardo", disse Alef, "lo stesso di David prima di lanciare la pietra sulla fronte di Golia".  "Io invece conosco il chiodo", disse Tzade. "È lo stesso, fatto di pesante silenzio, che si piantò nel cuore di Aronne per l'improvvisa morte dei figli".  "Io invece", disse Iod, "conosco meglio di voi l'orizzonte e so che tra poco sputerà via il chiodo e si sposterà, lontano".  "Vogliamo dargli una mano?", dissero in coro Pei e Ayin. "Ci penso io", disse Kof e si posò sulle palpebre di K.  Egli perse subito l'orizzonte, lo sguardo, il chiodo e pure la parola.  Si alzò e cominciò a girare su se stesso, a spirale, sempre più vicino al proprio cent

Adagio (Il sogno)

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                                               Beethoven: Violin Concerto (with Itzhak Perlman, Daniel Barenboim & Berliner Philharmoniker)  Si rincorrono tra loro le memorie. Sono fili di lino, bave di bachi. Uniscono tra loro richiami lontani – chissà di cosa - pronte a spezzarsi al primo alito di vento. Io taccio e ascolto, come se fossero suoni d'oboe. Richiami di corni inglesi. Voci di ritorno. Poggiavo mani ancora bambine su muschi e licheni. Richiami femminei e umidi, al risveglio. Ora le vedo (le mie mani), vissute, battere sui tasti, come fossero di piano, alla ricerca di quegli odori. Tra semitoni e bemolle minori, appena accennati, si culla la memoria mia. Di lontano un canto, amico, si fa strada. È una voce dimenticata che avanza nella mia mente. O, forse, mai udita. Parla una lingua che capisco poco, fatta di suoni che stento a riconoscere. Eppure li faccio miei. Non è la lingua della memoria, né quella del futuro. Non è la lingua antica e arcana delle ventidue let

Lo storpio

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Sono incerti e straziati, eppur sereni, i passi di quell'uomo. Un camminare lento, tenace, testardo - forse un po' ebete - nonostante gli inciampi. E mi chiedo cosa porti un uomo a non cedere alla debolezza delle ossa, del corpo. A fermarsi finalmente sulla via e chiudere gli occhi e tacere. Lo vedo avanzare, inesorabile, strascicando i piedi, quasi a urlare: io vivo e cammino. E a quel suo passo disarticolato - quasi inumano - la gente lascia spazio. Esiste un'empatia immediata verso le fatiche dell'uomo. Esiste eccome, anche quando vogliamo dipingere l'umanità come un ammasso di egoismi senza fondo. Di fronte al movimento da marionetta, da spettacolo dei pupi, di quello storpio, la gente si sposta, silenziosa. Nessuno ne intralcia la via. “Lasciatelo passare”, sembrano dire. E lui passa, tenace, testardo - forse un po' ebete – nonostante i limiti fin troppo evidenti del suo corpo. La gente lo lascia passare e poi si volta, come ad assicura

Yom Kippur

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Dipinto di Marc Chagall Il ragazzo arriva trafelato in sinagoga. Crede ancora di poter rimediare agli errori della sua giovane vita in dieci giorni di rielaborazione e uno di digiuno. Ha lo sguardo stralunato; occhi neri che vagano senza sosta da un oggetto all'altro, da un volto all'altro della sinagoga, come se cercassero qualcosa di ineffabile. C'è un nodo che il ragazzo spera di risolvere in quella giornata di preghiera e ritiro. Più ci pensa e meno “peccati capitali” gli pare di aver commesso, ma è sempre quel nodo a bussargli con insistenza nei pensieri. Si presenta sempre con la stessa frase stentorea, come un giudizio concluso, una sentenza inappellabile già depositata: “L'ho gestita male, molto male”. Poi segue una lista di atti di autoaccusa interminabile, sempre secondo la terribile formula degli “avrei potuto-avrei dovuto”. La condanna è inevitabile e anche il senso d'angoscia per una serie di errori che la sua rigida etica gli impedisce di evitare di at

Il messaggero d'autunno

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"Ci vuole un prisma", dicevi, "per trasformare luci bianche in arcobaleni di colori". Io cercavo, al contrario,  il luogo ove ogni parola  torna; un unico silenzio.  Mi sedetti sull'erba. Lontano cantava  un usignolo. Sergio Daniele Donati  - inedito Versi ispirati all'opera di Paul Klee " il messaggero d'autunno".

La piuma nera

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Hai perso la parola nel bosco. T'era sfuggita di tasca  mentre dormivi, la schiena appoggiata  alla quercia; nera. L'hai cercata, afono, ovunque,  persino nel buco del tronco, fonte di ogni predizione. Il merlo sopra a un ramo  cantava e rideva.  L'hai guardato;  sguardo assassino. La volpe ai tuoi piedi  guaiva.  L'hai cacciata a calci.  Disturbava la tua ricerca. La notte, disperato,  sei tornato a casa.  Sotto lo zerbino. Accanto alla chiave  solo tre cose: unaa piuma nera,  un ciuffo di peli  rossi  e una sola parola:  sciocco.

Il mio Giorno della Memoria

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Ascoltando il concerto num. 1  per violino e orchestra di Max Bruch  ( Menuhin, Fricsay) Quella lunga nota tesa iniziale. E il tuo pianto, papà. Sei milioni di lacrime.  Come puoi contenerle, papà?  Come può fare una domanda simile un bimbo di sei anni?  E la tua risposta, impaurita: “non lo so, Sergio”.  E il violino che saltella di nota in nota; a me sembrano ossa rotte, spezzate, e grida e urli.  “Perché a noi papà?”.  “Non lo so, Sergio”.  E i tuoi occhi, le tue lacrime.  E i miei occhi che non capivano, non capivano.  Né capiscono ora; e saltellano nervosi e umidi da un nome all'altro; anche inventato, ché tanto tra i sei milioni di morti uno che si chiamava così ci sarà stato, no?  Quante volte, papà, ho ripetuto nomi immaginari, incapace di contenere quelli veri.  Una memoria diffusa, straziante e senza esito.  Già, io non contengo. Esplodo.  E mi dondolo lento, gli occhi chiusi, come facevano loro prima...dell'indicibile.  Non

Tatuaggi (la consapevolezza dei)

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Io non so se ti appaia banale; versando l'acqua in un vaso la terra muta colore.  Diventa quasi nera; assorbe scurendosi la qualità di un liquido puro, limpido, trasparente.  Così funzionano le relazioni umane. E per certo per queste vie si è articolata la storia del nostro incontro.  Ci siamo adombrati nella speranza di poter accogliere la purezza dell'altro.  Eravamo entrambi malamente drenati; non siamo stati capaci di trattenere dell'altro i significati più profondi.  Una purezza troppo limpida, la nostra, per risultare accettabile.  La si doveva sporcare con il fango delle nostre paure e poi espellerla; abbiamo dovuto lasciarla esondare coi detriti del nostro passato dal sottovaso del nostro amore.  Un amore, il nostro, ancora troppo infante per saper respirare da solo; come terra in un vaso, alla fine ci siamo scuriti noi.  L'acqua, l'amore faranno i loro voli; percorreranno le loro imperscrutabili vie d'elevazione per tornare puri. 

Lamed e Iod

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Lamed e Iod.  Due lettere ebraiche su cui sono stati scritti milioni di pagine e i cui simboli non si è mai cessato di esplorare.  Io non sono certo tra i grandi che hanno soffermato il loro pensiero su queste due lettere.  Ed è con timore che ne parlo.  La Lamed è lettera simbolo sia di insegnamento che di apprendimento. È la lettera graficamente più grande dell'alfabeto ebraico su cui svetta, quasi a dirci che la tradizione (relazione tra chi apprende e chi insegna) e la trasmissione della Torah, sono il punto più alto della spiritualità ebraica. Se unità alla prima lettera della narrazione, la Bet, si compone la parola Lev (cuore). Non esiste insegnamento/apprendimento fuori dal cuore e l'insegnamento/apprendimento sono il cuore della identità e della narrazione ebraica di sé. La Iod (o yud) è la lettera dimensionalmente più piccola. Simbolo di centro vitale, di concentrazione, di fissità generativa del moto rotatorio della vita, non a caso è la prima