Stanze della parola contratta
Stento a dire mio quel tratto di penna. M'appartiene il polso - e anche il fiato. Ma quel lemma scomposto - quel taglio beffardo sull'albume del foglio - che tacita ogni mio dire canta con voci straniere ai miei midolli semiti. Poi, lo sai, finiamo coll'ospitare nelle rughe delle mani parole altrui - malsane - per non dirci capaci del volo che c'appartiene. Finiamo coll'opporre un silenzio di palude al sacro che abita le nostre pure intenzioni, perché incapaci d'una risata che sgretoli lo stigma sulla nostra pelle bambina. E ci incantano la notte voci sublimi di sonno - che il sogno poi nega - e la loro lettura al mattino confonde; perché sotto all'omero candido del nostro oblio si nasconde un verso sovrano, una "voce di tenebra azzurra" ¹, un sospiro silvano, un tatuaggio sull'ebano d'un guerriero africano. Tu chiedi il gesto io oppongo il suono; non resta che un passaggio stretto - alla parola - per divenire besciamella di significato