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Cresce un febbrile di Antonella Lucchini

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Pubblicato su concessione di Antonella Lucchini Cresce un febbrile e sotterraneo lavorio un tramestare di grida sottili nel corpo di quest'aria ormai cicatrice sui tonfi d'autunno. È la prima vera cuccia calda della primavera la mia pelle che inconsapevolmente si cuce al filo del sole. Io che non voglio io che sono un mulinello di foglie secche io vento freddo sugli occhi e fischi nelle ossa mi ritroverò ad avere dita di fiori una volta ancora. Una resa tiepida un chiodo piantato.

Eri piccolo

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A mio figlio Gabriel Lo sai?  Il nuovo soffia sempre sull'antico.  E non è vero il detto.  Esiste tanto d'inaspettato sotto il sole.  Dormivi sul mio torace.  Notti insonni in cui  guardavo il tuo lento respiro,  e pensavo  lo sai? Ogni mio passato  poggia sul tuo futuro.

Altalene e scivoli

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E giunse per lui l'ora, servo della parola, di scendere da quell'altalena. Entrò silenzioso nel parco  dell'infanzia perduta. A chi gli chiedeva  del suo andar lontano, rispondeva il suo sguardo sognante e nostalgico: “Guarda, si è liberato lo scivolo!”

L'avvocato va

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In attesa del dispositivo di sentenza l'altro giorno, mi chiedevo cosa fosse quel lieve disagio. Aveva una collocazione precisa nel mio corpo. Si manifestava come una sorta di piccola vibrazione a livello della clavicola destra; un battito, una pulsazione che faceva cucù alla mia coscienza con ritmo sincopato. E portava con sé pensieri; e portava via da me pensieri. Sono uscito un attimo dall'aula per respirare le polveri sottili di Milano (quelle sì che fanno bene). Poi il cancelliere è venuto a cercarmi. “Avvocato l'aspettano per leggere il dispositivo”. Sono rientrato di malavoglia. L'esito era scontato; l'aveva combinata troppo grossa e la sua recidiva certo non lo agevolava. “Carcere”, avevo previsto. E carcere è stato. “Sì, sì, faremo l'appello. Ci sentiamo presto”, ho bofonchiato distratto al condannato, e sono uscito dal Tribunale. Avrei voluto tornare a piedi in studio; Milano era davvero radiosa. Ma dopo qualche metro ho s

Divertissement

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Scrivere “in levare” e varare piroghe di lemmi in mare; “togliere e limare”, questo bisogna amare se vuoi una scrittura che dura oltre l'ardente pira dell'umano respirare. Non è male il mare, né il fiume di parole, come leggere piume, ma, se a un cuore vuoi arrivare, sia il tuo canto “in levare”, apprendi docile a levigare sospinto lento, lontano da un lieve navigare.

Dalet

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  Johann Sebastian Bach  -   Piano Partita No. 2 In C Minor, BWV 826    (Esec. Martha Argerich ) Davanti a quella porta io mi chino. La scrittura si fa piccola, sempre più piccola; essenziale. Mi dicevi poeta da piccolo. Io, sognante, componevo frasi con le quattro parole che possedevo. “Il cielo, il mare e mamma e papà”, ricordi? Poi mescolai elementi e materie e tu mi dicesti scrittore. Fu un necessario strappo a costringere l'abbondanza dei simboli, ali di rondine per le mie intuizioni, in cassetti inaccessibili, anche a me. Anche a me. Rimanemmo in tre; e ora lentamente svanisci anche tu. Con passo fragile, insicuro, delicato e discreto svanisci. Ti fai piccola ai miei occhi che si chiudono per non vedere. E, mentre a stento varco quella porta, lenta appare in cielo, come scritta di fuoco grigio, la domanda: “Chi mai sosterrà le mie lettere ora, mamma? Chi mai?”.

El m'è mestee (il mio lavoro)

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Se c'è una cosa che del mio lavoro adoro è il suo essere barriera contro le visioni assolute del mondo. Sempre più spesso si leggono interventi di sociologi che spiegano il mondo "solo" in chiave sociologica, di psicoanalisti che lo fanno solo in chiave psicoanalitica, di pedagoghi che lo fanno solo in chiave pedagogica; per non parlare del mondo della religione, della meditazione (che pure pratico e insegno) e delle nuove discipline olistiche da guru.  Persino i linguisti sembrano ridurre spesso tutto a linguaggio. Che poi tutto sia linguaggio è altra questione, che qui non vorrei affrontare.  Noto, in altre parole, una certa difficoltà a passare da un registro interpretativo all'altro; si ricerca una risposta unica, sempre valida, inconfutabile. Il diritto, pur avendo un evidente anelito all'assoluto, sia esso il senso di giustizia o la percezione della sacralità della difesa, o latro, insegna al contrario a valutare sempre ciò che è "l'

L'avvocato pensa

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Messa  in si minore J.S. Bach BWV 232 "Avvocato è con noi, è pronto?", mi chiede il giudice.  Alzo lo sguardo da gufo che prepara la mia discesa in udienza, la maschera che spesso indosso per nascondere l'evanescenza dei miei volti e dei miei pensieri di fronte ai destini di giovani vite.  "Sì certo, dottoressa, quando vuole...".  "Avrà avuto poco tempo per leggere la relazione dei servizi, avvocato. È stata depositata in ritardo solo l'altro ieri. Ha bisogno di qualche minuto per rileggerla?"  "No, grazie dottoressa. Mi è tutto chiaro, possiamo anche cominciare l'udienza".  Il mio sguardo non è più da gufo ora, ma da falco; ho puntato la preda e mi è chiaro che non mi può sfuggire.  Maschera anche questa, pesante maschera; e una leggera sensazione di onnipotenza che mi prende le rarissime volte in cui percepisco la certezza della mia vittoria.  "Bene, allora cominciamo".  Il resto è come

Ghimel

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Su musica di F. Chopin - Notturni, nell'esecuzione di Brigitte Engemor  Gattoni a stento, tenace. Sorridi al sogno.  È argento la sorgente,  spirale del tuo movimento.  Licheni ocra intenso,  vene giocose  per la tua verde linfa,  incidono su pietra antica  la mappa del tuo nome.  Io padre e figlio del sogno,  t'attendo fiducioso.  Sguardo da pastore  verso valli d'anelito,  mi dondolo lento.  Il tuo futuro è battito d'ala  tra i miei occhi.  Apro le braccia, silenzioso;  l'onda della vita canta.  “Vieni Gabrièl, ce la fai!”

Il mio Giorno della Memoria

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Ascoltando il concerto num. 1  per violino e orchestra di Max Bruch  ( Menuhin, Fricsay) Quella lunga nota tesa iniziale. E il tuo pianto, papà. Sei milioni di lacrime.  Come puoi contenerle, papà?  Come può fare una domanda simile un bimbo di sei anni?  E la tua risposta, impaurita: “non lo so, Sergio”.  E il violino che saltella di nota in nota; a me sembrano ossa rotte, spezzate, e grida e urli.  “Perché a noi papà?”.  “Non lo so, Sergio”.  E i tuoi occhi, le tue lacrime.  E i miei occhi che non capivano, non capivano.  Né capiscono ora; e saltellano nervosi e umidi da un nome all'altro; anche inventato, ché tanto tra i sei milioni di morti uno che si chiamava così ci sarà stato, no?  Quante volte, papà, ho ripetuto nomi immaginari, incapace di contenere quelli veri.  Una memoria diffusa, straziante e senza esito.  Già, io non contengo. Esplodo.  E mi dondolo lento, gli occhi chiusi, come facevano loro prima...dell'indicibile.  Non