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La lenta danza di una donna e il mare

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Guardo il mare e mi accorgo di quanto pesi la mancanza del tuo sguardo sulla mia schiena.  Guardo immobile il mare, che immobile non è mai, e sento la pelle scottare.  Proprio sulle spalle dove hai posato le tue labbra prima di andartene.  E un'onda, e poi un'altra e i piedi sulla sabbia.  E io, no, non piangerò.  Non piangerò l'assenza della tua parola, il tuo volare via come un gabbiano, senza nulla dire.  Come se andarsene fosse un gesto dovuto, inesorabile.  Come se l'assenza di spiegazioni fosse un segno di saggezza.  Le parole, anche quelle inutili, sono essenziali per sopravvivere.  Ma io, no, non piangerò.  E ad ogni onda sposterò i miei piedi sulla sabbia.  Solo pochi centimetri, ad ogni onda.  E ogni onda, e ogni centimetro sulla sabbia, saranno le parole che non mi hai detto.  Inutili, necessarie.  Perché c'è molta più saggezza in un'onda e nei miei piedi e nella sabbia che nel tuo volo di gabbiano.  Tu non hai radici. Io le mie radici le faccio danza

La danza di Maia, la ninfa (e Zeus)

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Sono scesa dal cielo, ho lasciato le mie sorelle perché il Sogno mi ha detto che qui ti avrei incontrato.  Sono poi uscita dal Sogno perchè il cielo mi ha detto che non esisti.  E guardo i miei piedi sul muschio e respiro, tra cielo e Sogno e mi incanto, perchè lontano, troppo lontano, so che invece esiste un luogo dove Sogno e cielo fanno l'amore.  E i miei piedi prendono la forma delle foglie. E respiro.  E alzo il palmo della mano sinistra all'altezza dei miei occhi e il mio volto si adombra, gli occhi si velano e canto piano l'uscita dal Sogno.  A nulla valgono i riflessi di stelle nelle mie pupille, a nulla.  E muovo il primo passo. E la schiena si raddrizza, lo sterno si allinea alla cinta di Orione, e monta, monta, monta la rabbia.  Perché troppo a lungo ho sognato.  E il secondo passo, più deciso, pesta forte contro il muschio, come una mazza contro il tamburo, e poi salto. Cado a terra. Mi rialzo e salto ancora. E ogni volta che cado (e mi rialzo) pezzi di Sogno ve

La danza di K.

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  La lucida determinazione di chi ha scelto. Sguardo piantato sull'orizzonte. Come un chiodo. Piantato fino alla capocchia sulla linea d'ombra dell'orizzonte.  È morto il re. Viva il re.  Dietro le schiere. Davanti il chiodo.  "Io lo conosco quello sguardo", disse Alef, "lo stesso di David prima di lanciare la pietra sulla fronte di Golia".  "Io invece conosco il chiodo", disse Tzade. "È lo stesso, fatto di pesante silenzio, che si piantò nel cuore di Aronne per l'improvvisa morte dei figli".  "Io invece", disse Iod, "conosco meglio di voi l'orizzonte e so che tra poco sputerà via il chiodo e si sposterà, lontano".  "Vogliamo dargli una mano?", dissero in coro Pei e Ayin. "Ci penso io", disse Kof e si posò sulle palpebre di K.  Egli perse subito l'orizzonte, lo sguardo, il chiodo e pure la parola.  Si alzò e cominciò a girare su se stesso, a spirale, sempre più vicino al proprio cent

Adagio (Il sogno)

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                                               Beethoven: Violin Concerto (with Itzhak Perlman, Daniel Barenboim & Berliner Philharmoniker)  Si rincorrono tra loro le memorie. Sono fili di lino, bave di bachi. Uniscono tra loro richiami lontani – chissà di cosa - pronte a spezzarsi al primo alito di vento. Io taccio e ascolto, come se fossero suoni d'oboe. Richiami di corni inglesi. Voci di ritorno. Poggiavo mani ancora bambine su muschi e licheni. Richiami femminei e umidi, al risveglio. Ora le vedo (le mie mani), vissute, battere sui tasti, come fossero di piano, alla ricerca di quegli odori. Tra semitoni e bemolle minori, appena accennati, si culla la memoria mia. Di lontano un canto, amico, si fa strada. È una voce dimenticata che avanza nella mia mente. O, forse, mai udita. Parla una lingua che capisco poco, fatta di suoni che stento a riconoscere. Eppure li faccio miei. Non è la lingua della memoria, né quella del futuro. Non è la lingua antica e arcana delle ventidue let

Lo storpio

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Sono incerti e straziati, eppur sereni, i passi di quell'uomo. Un camminare lento, tenace, testardo - forse un po' ebete - nonostante gli inciampi. E mi chiedo cosa porti un uomo a non cedere alla debolezza delle ossa, del corpo. A fermarsi finalmente sulla via e chiudere gli occhi e tacere. Lo vedo avanzare, inesorabile, strascicando i piedi, quasi a urlare: io vivo e cammino. E a quel suo passo disarticolato - quasi inumano - la gente lascia spazio. Esiste un'empatia immediata verso le fatiche dell'uomo. Esiste eccome, anche quando vogliamo dipingere l'umanità come un ammasso di egoismi senza fondo. Di fronte al movimento da marionetta, da spettacolo dei pupi, di quello storpio, la gente si sposta, silenziosa. Nessuno ne intralcia la via. “Lasciatelo passare”, sembrano dire. E lui passa, tenace, testardo - forse un po' ebete – nonostante i limiti fin troppo evidenti del suo corpo. La gente lo lascia passare e poi si volta, come ad assicura

Timidezze

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Un narrare lento,  raccontarsi piano  per non dire.  Non dire,  lo sguardo distolto  dalla porpora  del tuo cuore.  Erano timide  le mie parole  allora.  Sono timide ora  e non strappano,  non incalzano  non elevano più.  Tornano lente  nella culla che  le vuole silenti  per rinascere.

Palpebra

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La palpebra si abbassa  e illumina il sogno.  Il vento canta messaggi  di lontano, nella lingua antica.  Ma è solo tra i volti  di una voce amica  il senso profondo del mio respiro.

L’essenza del combattimento

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Il nemico è dove si perde il mio Nome.  Il mio Nome si perde dove incontro la tua spada.  La tua spada si perde dove incontro il mio Nome.

Yom Kippur

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Dipinto di Marc Chagall Il ragazzo arriva trafelato in sinagoga. Crede ancora di poter rimediare agli errori della sua giovane vita in dieci giorni di rielaborazione e uno di digiuno. Ha lo sguardo stralunato; occhi neri che vagano senza sosta da un oggetto all'altro, da un volto all'altro della sinagoga, come se cercassero qualcosa di ineffabile. C'è un nodo che il ragazzo spera di risolvere in quella giornata di preghiera e ritiro. Più ci pensa e meno “peccati capitali” gli pare di aver commesso, ma è sempre quel nodo a bussargli con insistenza nei pensieri. Si presenta sempre con la stessa frase stentorea, come un giudizio concluso, una sentenza inappellabile già depositata: “L'ho gestita male, molto male”. Poi segue una lista di atti di autoaccusa interminabile, sempre secondo la terribile formula degli “avrei potuto-avrei dovuto”. La condanna è inevitabile e anche il senso d'angoscia per una serie di errori che la sua rigida etica gli impedisce di evitare di at

Ritmo

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Tempo di scrittura 2min:26 sec Ho voglia di scrivere. Di sentire il tam tam nervoso delle dita sui tasti.  Senza seguire un filo logico.  Scrivere, finalmente, per scrivere.  Lasciando nell'etere, o all'etere, ogni mio intento.  Desidero seguire la danza dei polpastrelli come se fosse una bossa nova, e poi, chissà, qualcosa ne verrà fuori.  Ritmo, ritmo, ritmo.  Utilizzando le pause per non pensare.  Ritmo (ritmo, ritmo).  Utilizzando le pause per ascoltare.  Ritmo (ritmo, ritmo).  Utilizzando le pause per aspettare.  E poi ancora ritmo, ritmo, ritmo.  E chissà qualcosa ne verrà fuori.  Già appaiono storie possibili e personaggi strani capaci di dire ciò che evito di dire.  Le scarto. Romperebbero il ritmo (ritmo, ritmo) dei miei polpastrelli.  E poi, siccome scarto, saluto le storie e i personaggi.  Ciao, ciao. Ci rivediamo presto.  Ho voglia di scrivere, senza pensare, senza costruire, senza scartare né accogliere.  Seguendo il ritmo (ritmo, ritmo) del ritorno.  E poi lo so p