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Francesca (7 marzo)

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Foto di Sergio Daniele Donati Gocce d'acqua,  Francesca; colano su un lavandino  di lavica i ricordi.  Un lavandino   di lavica .  Armonie lente,  blues in minore,  scivolano sulla pietra  della memoria, grigia.  Fanno plic, plic nella mente.  Nella mente Cosa diresti, Francesca,  lo so bene!  Parole della lingua antica,  per coprire il vero.  Il vero Vibra il dono,  mia dannazione,  per non vedere.  Non vedere Eccolo il nuovo,  Francesca,  giorno che tinge  il passato  di colori pastello Colori pastello Lingua nuova,  passo di gatto.  Gocce di memoria  sostenute  da presenze eteree,  e dal Salmista,  e dalla tua mano.  La tua mano Sei un plic, plic,  che sostiene,  Francesca.  Plic, plic. Sostieni E bussi alla tempia,  stanca,  e sorridi e dici:  “Il sasso è tornato  a galla, levigato.  Poggia la penna,  se la mano è stanca  e le idee mancano”.  E le idee mancano   Sei nel soffio,  Francesca.  E guidi dall'

Il centro e la pratica marziale interiore

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"Cerca il centro", disse il mio maestro. "La tecnica non può funzionare se non mantieni il contatto col tuo baricentro". Poi mi chiese: "Ok l'hai perso, cosa fai per ritrovarlo?". "Appoggio lo sguardo sulla linea dell'orizzonte", risposi meccanicamente; una lezione imparata a memoria. "No", disse indurito, "Lo sguardo viene dopo, molto dopo".  "Sensei, io non lo so", risposi. Non parlò più e se ne andò a correggere qualche altro allievo. La sera, come sempre, un grande parlare tra noi allievi, qualche bicchiere di vino e un grande amichevole casino. "Cos'hai?", mi disse lei, "sembri assente". Era una delle allieve più anziane del mio maestro. Bassa, fortemente in sovrappeso, con uno strano accento della Francia centrale. Quando però saliva sul tatami restavamo tutti estasiati. Sembrava danzare al ritmo della sua spada di legno, tracciando con la sua punta linee che sembravano pennel

Il solito poeta

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Nottata di sogni densi di significato e sonno finalmente profondo e ristoratore. Al mattino molto presto il terrazzo è un luogo fatato, silenzioso e calmo. Il cielo commuovente. Sembra invitare a guardare lontano, sia nel presente che nel passato, con morbidezza e soprattutto con speranza.  E poi lui, il seme, il primo seme ti guarda, timido, coperto dalle foglie delle belle di notte che, dopo aver diffuso colori e profumo sotto alle stelle, si cominciano a chiudere stanche. La bellezza stanca, va protetta. Il primo seme di quest'anno da me colto. E forse il primo cielo di quest'anno da me guardato in questo modo. Accogliere le primizie come un dono è uno dei più ricchi insegnamenti dell'ebraismo. Ad ogni primizia, ad ogni frutto assaggiato, ogni cosa colta per la prima volta nell'anno si dedica una particolare preghiera: Benedetto sia tu nostro signore che ci hai mantenuto, conservato, portato fino a questo tempo. E anche se recitata singolarmente que

L'avvocato è stanco (nature boy)

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Il colloquio col giudice era stato stimolante e proficuo. Avevo usato ogni arma a mia disposizione per far passare come sostenibile quell'assurda mia linea difensiva. E, dallo sguardo che la dottoressa aveva posato nei miei occhi, avevo intuito che un qualche barlume di dubbio ero riuscito a seminarlo. Ma lei continuava a guardarmi, anche quando avevo smesso di parlare. Uno sguardo enigmatico, di chi ne ha viste tante, forse troppe. Solo i giudici, anzi solo i migliori tra loro, sanno tenere quello sguardo. E io, nonostante i miei trent'anni di arti marziali, i miei discorsi sullo sguardo del samurai e sulla capacità di chiudere gli occhi quando necessita, mi ero sentito nudo e inerme di fronte ai suoi occhi. Mi ero limitato a tacere, guardandola come un bimbo guarda una mamma arrabbiata dopo aver commesso qualche marachella. "Avvocato, ho capito", aveva detto, "e le prometto di valutare con attenzione le sue parole. Non tema. Ci sono ancora dei punti

L'incipit dei miei incipit

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Quando avevo circa vent'anni andai da solo in una birreria vicino a casa, armato di penna e taccuino.  Era tanto figo a quell'epoca concentrarsi su una traccia, su un'idea. Solitario, ma nel brusio del locale affollato, provavo a scrivere. Di colpo sentii una mano sulla mia spalla.  Era un vecchio dai capelli bianchi, camicia azzurra, baffi anni 70, lievemente all'ingiù.  Mi guardava dritto negli occhi, con un bicchiere in mano. Ricordo che non ebbi paura.  Anzi, era come se lo conoscessi da sempre. I miei occhi giovani e inesperti nei suoi, blu come il mare, vissuti e sornioni. "Anche tu scrivi per sopravvivenza, vero ragazzo?", mi chiese.  Non seppi cosa rispondere, ma sorrisi. Lui si fece più serio.  "Conosci Blackbird dei Beatles?", mi chiese. "Si". Risposi. "Ascoltala bene prima di scrivere di nuovo, sopravvivrai meglio", mi disse e se ne andò. Oggi, mentre scrivo, siedo in una birreria da sol; osservo la gente intorno a