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(Redazione) - "La poesia non ci salverà" (riflessioni di poetica, pensieri e testi di Valeria Raimondi)

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LA POESIA NON CI SALVERÀ (Siamo consapevoli della follia della vita. Perciò scriviamo. Sapendo che la parola non cura, intravedendo la guarigione, ammettendo l’incurabilità) 1 Nell’arte o, meglio, nell'atto creativo, la pena coincide con la cura : la pena è quella che viviamo ed attraversiamo, è nella dimensione dell’essere, nel trascorrere tragicomico degli eventi; la cura è nella lucida consapevolezza della follia della vita, che pur non vogliamo rinnegare. La narrazione poetica è il luogo della cura . Ma la poesia e la scrittura sono salvifiche non come mero sfogo personale ma perché, per loro natura, mostrano un orizzonte più vasto, una dimensione altra che può comprendere e salvare dalla follia dell’esistere, ma mai potrà… normalizzare. Perciò io difendo il diritto alla cura , ma anche quello all’ incurabilità. Si scrive nel mezzo, sospesi su un ponte, intravvedendo la guarigione: non si potrebbe mai più scrivere, una volta attraversato il ponte, perché solo da lì lo sguardo

La linea d'ombra (su giudizio, corpo, silenzio e perdono)

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Scrivevo sui social, esattamente un anno fa, queste parole: Viviamo su una linea d'ombra sulla quale giocano, come note, le parole altrui. E siamo sempre e solo noi a decidere se siano parole pesate o meno. "Alle parole non pesate altrui non si dovrebbe dar peso". Ne si dovrebbe dare alla sacra foglia l'onere della stabilità del santo tronco. Siamo liberi, sempre liberi, di decidere ciò che è foglia e ciò che è tronco. Così dovrebbe essere sempre. Non resta che il ritiro (la sacra parola che si tace) e la speranza che ciò che non è compreso oggi lo sia domani. Io non sono tagliato per il trivio e nemmeno per gli stigmi e gli epiteti. Ci vogliono abilità oratorie e retoriche che a me mancano. Per questo difficilmente giudico gli altri. Mi pesa farlo. Giudicare bene gli altri è un'arte, non per cialtroni come me. Giudicarli male mi fa sentire un tacchino con pretese di volo d'aquila. Preferisco cercare di spiegarmi, coi miei soliti inciampi, e con gli scarni st

Meditazione sul treno del ritorno

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L'avvocato si siede felice. Ne ha salvato un altro, a Marcaria, un paese di mille abitanti vicino a Mantova. Chiude gli occhi. Sempre più stanco. Il treno lento culla i suoi pensieri. O sono i suoi pensieri a rallentare il ritmo della locomotiva sulle rotaie? E il ricordo del maresciallo dei Carabinieri che lo aveva ringraziato, stritolandogli la mano, gli strappa un sorriso.  Poi il volto del ragazzo, sfidante ma fragile, che gli chiede se andrà tutto bene. "Certo che andrà bene" , aveva detto. Ma poi cosa mai è il bene per un ragazzo di 16 anni con quel passato famigliare addosso?  L'avvocato non lo sa. E i vecchi al bar che bevono un bianchino e l'avvocato ci entra in contatto quasi fosse un extraterrestre in un Saloon di un film western. Poi si ricorda di suo padre e della Modena che gli vibrava nel cuore e nelle parole. E si ritrova a parlare in modenese coi vecchi, che gli raccontano la loro vita, mentre il cinese titolare del bar sorr

Il treno delle emozioni

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Il treno va, e porta l'avvocato stanco verso quell'interrogatorio in quei di Mantova. Lento, va il treno regionale, come lenti sono i pensieri dell'avvocato. Ed ogni casa che incrocia è un pensiero, un ricordo dei propri errori, come in sequenza. I "dovevo dire", i "dovevo tacere", i "dovevo fare", i "dovevo astenermi dal fare", professionali e non, scorrono inesorabili nella mente dell'avvocato, stanco.  Ognuno come una piccola puntura su una pelle troppo sensibile, troppo sensibile. Ed è come ripercorrere tutta la propria vita, costellata di inciampi, cadute, risalite, ricadute, progetti, sogni realizzati e racconti rimasti nel cassetto. Il treno va e l'avvocato stanco pensa al suo assistito, alla lista dei suoi errori, per quella giovane età, già troppo lunga. Il treno va e taglia lento campagne, paesini fatti di rotaie e quattro abitanti, e poi ancora campagne e case sperdute che allungano la lista del

Nella penombra

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Per paura dello sciopero e di far tardi, sono arrivato tre quarti d'ora in anticipo nel luogo dove tengo i miei corsi di meditazione.  Tutto è silenzio e buio. Non mi va di accendere le luci, non ancora. Chiudo gli occhi e, per un istante, cerco di fare entrare il silenzio e la penombra nelle ultime tracce di questa mia caotica giornata.  Un senso tutto questo affanno lo avrà?  Un senso, magari sottile, delicato, sfuggente, deve averlo questo mio desiderio di non lasciar morire la voce del mio maestro, di passare ad altri il testimone che fu passato a me.  E ho bisogno di Silenzio anche solo per porre la domanda a me stesso, per non permettere al bimbo piccolino e pigro che mi abita di accontentarsi di risposte preconfezionate e stantie. Perché insegno? Che cosa insegno ogni giovedì e nei miei seminari? Quali voci mi abitano quando parlo ai miei allievi? Quali semi cerco di seminare nel loro più che fertile terreno?  Oh sì, potrei dirvi del piacere del pass