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Visualizzazione dei post con l'etichetta Ulisse

Oblio - Odisseo a Penelope

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  Disumane, collose parole blu salgono le cortecce del cielo. Tu non sei più là ormai e quasi dimentico il tuo verde nome. Mi scordo il timbro cavo d'una voce barbara. Là, tra le foglie secche e parole sospese, io non ricordo più di dare al mio cuore - danzatore lunare -  respiri di silenzio. E ho una paura nera, non proprio di morire, ma di lasciar segno. Ho paura che scordi piene promesse d'oblio   - nelle notti di luna, falsi poeti dicon d'udir la mia voce, tra refoli di vento. Dimenticami; io sono ormai afono, muto, incapace di scrittura piena. Dimenticami; a nostro figlio dì della morte mia in battaglia. Dimenticami; togli la vita ad Argo perché l'attesa di nero cane - che torni un altro cane - insulta forte la fredda gioia di crudeli dei. _______ Foto e testo - inedito 2023 - di Sergio Daniele Donati

A vele spiegate (in morte di Odisseo)

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Non fu la corda a legarmi all'albero per evitare  delle sirene le seduzioni,  ma un controcanto una nenia piana, un basso continuo  - un suono metallico - che tracciava senza pietà l'imperativo d'un ritorno  già scritto nelle crepe d'una vita non più mia. Si torna morti  - dai campi e dai fumi  della Storia, dal miele  rancido delle storie, dalle contro-narrazioni, si torna già morti - e il luogo incolto del ritorno è coperto di sterpi, erbe maligne, come parole; come la Parola. Son tornato per non raccontare,  non per esser detto nei millenni. Cercavo l'oblio e ho trovato un poeta accecato  - e fui io a cavargli l'occhio  perché non dicesse;  ma disse , e per sempre - No, non fui legato da funi, né furono guardiani  i miei compagni. Mi tenne stretto  un contro-incanto l'illusione di ritrovare in Itaca l'assenza del Tempo, la sepoltura d'un uomo indegno. Son tornato però  a tender archi, uccider Proci e provocare infarti a cani troppo fe

Odisseo e la fune

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Che dire del vento che offusca le direzioni, o della bonaccia che lancia alta  l'angoscia d'un ritorno non più immaginabile? Se mi trovi legato  all'albero maestro non è per il canto delle sirene - è solletico alle mie orecchie il loro fingere il bello  in un giallo sorriso sdentato. Ho bisogno invece  di funi robuste che mi seghino le caviglie e di ritrovare nella caduta di gocce di sangue sul ponte il senso profondo d'una direzione perduta. Foto e testo - inedito 2022 di Sergio Daniele Donati ©

Odisseo

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Non posare la tua mano  sulla mia spalla. Io sono un vento che porta via; sono il buco nel secchio che raccoglie i tuoi sospiri. Non posare la tua mano sulla mia spalla; ho lo sguardo fisso sulla battaglia persa della memoria; io sono il vento che mi porta via  e mi canta, con voce di sirena,  l'illusione del ritorno. Non posare la tua mano  sulla mia spalla; completa la tua tela di ragno, tacita il richiamo a tornare dall'abisso - il tuo abisso e chiudi le tue orecchie al sussurro dell'inganno che ti dice - che mi dice - impossibile a morire. Sergio Daniele Donati - inedito 2022

Fa' che non torni (la follia di Odisseo)

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  Foto di Sergio Daniele Donati No. Fa' che non torni quell'onda ancora lontana; lascia che si sperda nell'abbraccio da macellaio  di Oceano la schiuma che ustiona. Fa' che quell'onda non riporti sulle spiagge ch'io ho pulito con maniacale minuzia il liquame del ricordo. E fa' che il mormorio subacqueo  di chi trama un ritorno sanguinario  sia assorbito da un cielo di perla. Oppure fa' ch'io non torni; dai spinta eterna al mio calcagno e portami lontano da questa spiaggia che ho troppo irrorato  di speranza infantile; perché, lo sai, la sabbia, anche se innaffiata dall'acqua più pura non dà virgulto e le orme del profeta sono cancellate dall'onda  della colpa. Fa' che non torni - ch'io non torni - e cambia il nome  in quello che urlai al monocolo di Polifemo. Non fu scherzo né trucco, allora; fu forse l'unica volta  che diedi voce  al mio profondo desiderio di diluirmi nell'oblio. E allora, fa' che non torni  a pulsare nel

La vendetta di Odisseo

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Ho provato sinora a cantare il canto monotonico dell'assiolo sul crinale seducente della voce dell'indicibile. E non mi fu facile  schivare le sirene  - il mio albero non era maestro e miei compagni troppo facili ad allentarmi i lacci. Né di me si può dire  che abbia seguito  la verità celata nel canto del ritorno. Non fu astuzia la mia guida - questo lasciatelo pensare ai falsi ermeneuti. Se sono qui, Proci, mentre imbraccio l'arco, è per ricordarvi - per ricordarmi - che niente può essere mai come prima del viaggio. Alzate dunque, se volete, alte le vostre urla e spaventi. Ma siate onesti almeno ora, prima del vostro ultimo respiro: ciò che per voi è ora terrore non è il mio ritorno ma il viaggio che la mia venuta vi impone.

Alef-Bet e Perdono - Ayin (ע) e Pe (פ)

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  Foto di Sergio Daniele Donati Se rivolgiamo uno sguardo adulto al mondo ( soprattutto delle relazioni ) il primo elemento che risalta, luminoso e terrificante, è la sua imperfezione. Le sue crepe e intoppi e faglie sono così grandi che il solo osservarle rischia di farci cadere in un abisso senza fondo. Ma qualcuno ci ha donato un occhio mobile e un cervello capace di rielaborazione. E allora la seconda cosa che notiamo del mondo (sopratutto delle relazioni) è la sua tenuta. Faglie e crepe e varchi profondi come ferite non impediscono all'uomo di continuare a trasmettere speranza. Perché? Perché l'uomo non cerca solo la verità storica e statica delle cose. Se ci avessero donato occhi e bocca (le Ayin ע e le Pe פ dell'alfabeto ebraico) solo per descrivere il mondo come è, ci sarebbe bastata una vista monoculare, da ciclopi. E la nostra funzione nel mondo sarebbe stata ben triste. Scribacchini, magari eruditi e colti, del limite, nostro e dei nostri simili. Nella