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(Redazione) - Muto canto - 10 - Ilio, Itaca e le ataviche origini della parola

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  A cura di Anna Rita Merico Muto Canto 10 : in cui si dice di Ilio e di Itaca, di ataviche origini della parola, di furti perpetrati e di ombre tessute al telaio. (di Anna Rita Merico) Trovarne l’inizio non fu semplice. Andò per incanti, soffi, malie, pause serene e intenti. Narrò di luogo in cui si mesceva impasto di maschile e di femminile, otri gonfi, melasse, principi e indistinzioni, offerte e mescite. E Penelope ancora non sa di Odisseo ad Itaca. Incontra il mendìco, già riconosciuto da Euriclea, nel precedente Canto. S’appressa il tempo de l’ultima notte concessa dal Fato ai Proci. Ogni respiro diviene doppio. Ogni passo è sospeso. Ogni pietra del Palazzo diviene muta spettatrice. I movimenti sanno di lama ardente. Atena scatena una folle risata che avvolge le involute dei Proci ignari e Teoclimeno prende a cantare per gl’Infelici colti da sciagura che ancora non vedono. Non vedono, ancora, architravi sporchi di sangue, né corpi squarcia

Oblio - Odisseo a Penelope

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  Disumane, collose parole blu salgono le cortecce del cielo. Tu non sei più là ormai e quasi dimentico il tuo verde nome. Mi scordo il timbro cavo d'una voce barbara. Là, tra le foglie secche e parole sospese, io non ricordo più di dare al mio cuore - danzatore lunare -  respiri di silenzio. E ho una paura nera, non proprio di morire, ma di lasciar segno. Ho paura che scordi piene promesse d'oblio   - nelle notti di luna, falsi poeti dicon d'udir la mia voce, tra refoli di vento. Dimenticami; io sono ormai afono, muto, incapace di scrittura piena. Dimenticami; a nostro figlio dì della morte mia in battaglia. Dimenticami; togli la vita ad Argo perché l'attesa di nero cane - che torni un altro cane - insulta forte la fredda gioia di crudeli dei. _______ Foto e testo - inedito 2023 - di Sergio Daniele Donati

A vele spiegate (in morte di Odisseo)

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Non fu la corda a legarmi all'albero per evitare  delle sirene le seduzioni,  ma un controcanto una nenia piana, un basso continuo  - un suono metallico - che tracciava senza pietà l'imperativo d'un ritorno  già scritto nelle crepe d'una vita non più mia. Si torna morti  - dai campi e dai fumi  della Storia, dal miele  rancido delle storie, dalle contro-narrazioni, si torna già morti - e il luogo incolto del ritorno è coperto di sterpi, erbe maligne, come parole; come la Parola. Son tornato per non raccontare,  non per esser detto nei millenni. Cercavo l'oblio e ho trovato un poeta accecato  - e fui io a cavargli l'occhio  perché non dicesse;  ma disse , e per sempre - No, non fui legato da funi, né furono guardiani  i miei compagni. Mi tenne stretto  un contro-incanto l'illusione di ritrovare in Itaca l'assenza del Tempo, la sepoltura d'un uomo indegno. Son tornato però  a tender archi, uccider Proci e provocare infarti a cani troppo fe

Odisseo e la fune

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Che dire del vento che offusca le direzioni, o della bonaccia che lancia alta  l'angoscia d'un ritorno non più immaginabile? Se mi trovi legato  all'albero maestro non è per il canto delle sirene - è solletico alle mie orecchie il loro fingere il bello  in un giallo sorriso sdentato. Ho bisogno invece  di funi robuste che mi seghino le caviglie e di ritrovare nella caduta di gocce di sangue sul ponte il senso profondo d'una direzione perduta. Foto e testo - inedito 2022 di Sergio Daniele Donati ©

Odisseo

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Non posare la tua mano  sulla mia spalla. Io sono un vento che porta via; sono il buco nel secchio che raccoglie i tuoi sospiri. Non posare la tua mano sulla mia spalla; ho lo sguardo fisso sulla battaglia persa della memoria; io sono il vento che mi porta via  e mi canta, con voce di sirena,  l'illusione del ritorno. Non posare la tua mano  sulla mia spalla; completa la tua tela di ragno, tacita il richiamo a tornare dall'abisso - il tuo abisso e chiudi le tue orecchie al sussurro dell'inganno che ti dice - che mi dice - impossibile a morire. Sergio Daniele Donati - inedito 2022

Fa' che non torni (la follia di Odisseo)

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  Foto di Sergio Daniele Donati No. Fa' che non torni quell'onda ancora lontana; lascia che si sperda nell'abbraccio da macellaio  di Oceano la schiuma che ustiona. Fa' che quell'onda non riporti sulle spiagge ch'io ho pulito con maniacale minuzia il liquame del ricordo. E fa' che il mormorio subacqueo  di chi trama un ritorno sanguinario  sia assorbito da un cielo di perla. Oppure fa' ch'io non torni; dai spinta eterna al mio calcagno e portami lontano da questa spiaggia che ho troppo irrorato  di speranza infantile; perché, lo sai, la sabbia, anche se innaffiata dall'acqua più pura non dà virgulto e le orme del profeta sono cancellate dall'onda  della colpa. Fa' che non torni - ch'io non torni - e cambia il nome  in quello che urlai al monocolo di Polifemo. Non fu scherzo né trucco, allora; fu forse l'unica volta  che diedi voce  al mio profondo desiderio di diluirmi nell'oblio. E allora, fa' che non torni  a pulsare nel

La vendetta di Odisseo

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Ho provato sinora a cantare il canto monotonico dell'assiolo sul crinale seducente della voce dell'indicibile. E non mi fu facile  schivare le sirene  - il mio albero non era maestro e miei compagni troppo facili ad allentarmi i lacci. Né di me si può dire  che abbia seguito  la verità celata nel canto del ritorno. Non fu astuzia la mia guida - questo lasciatelo pensare ai falsi ermeneuti. Se sono qui, Proci, mentre imbraccio l'arco, è per ricordarvi - per ricordarmi - che niente può essere mai come prima del viaggio. Alzate dunque, se volete, alte le vostre urla e spaventi. Ma siate onesti almeno ora, prima del vostro ultimo respiro: ciò che per voi è ora terrore non è il mio ritorno ma il viaggio che la mia venuta vi impone.

Alef-Bet e Perdono - Ayin (ע) e Pe (פ)

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  Foto di Sergio Daniele Donati Se rivolgiamo uno sguardo adulto al mondo ( soprattutto delle relazioni ) il primo elemento che risalta, luminoso e terrificante, è la sua imperfezione. Le sue crepe e intoppi e faglie sono così grandi che il solo osservarle rischia di farci cadere in un abisso senza fondo. Ma qualcuno ci ha donato un occhio mobile e un cervello capace di rielaborazione. E allora la seconda cosa che notiamo del mondo (sopratutto delle relazioni) è la sua tenuta. Faglie e crepe e varchi profondi come ferite non impediscono all'uomo di continuare a trasmettere speranza. Perché? Perché l'uomo non cerca solo la verità storica e statica delle cose. Se ci avessero donato occhi e bocca (le Ayin ע e le Pe פ dell'alfabeto ebraico) solo per descrivere il mondo come è, ci sarebbe bastata una vista monoculare, da ciclopi. E la nostra funzione nel mondo sarebbe stata ben triste. Scribacchini, magari eruditi e colti, del limite, nostro e dei nostri simili. Nella