(Redazione) - Voci dall'Umanesimo-Rinascimento - 09 - Il De priscorum proprietate verborum di Giuniano Maio: un caso controverso (seconda parte)

 
Di Gianni Antonio Palumbo

Avevamo cominciato ad affrontare la complessa questione del lessico De priscorum proprietate verborum, pubblicato nel 1475, per i tipi di Mattia Moravo, dal partenopeo Giuniano Maio, quella figura di studioso e onirocritico che Iacopo Sannazaro ricorderà nell’Enareto dell’Arcadia.

Il Volterrano l’aveva accusato di essersi impadronito del lessico di Antonio Calcillo, delineando foschi scenari di appropriazione indebita di opera altrui, con l’aggravante della sopraggiunta morte del vero autore del lessico. Siamo intervenuti già nella precedente puntata di questa rubrica (lo trovate qui) a chiarire il fatto che il lessico di Calcillo è tutt’altro che svanito, al punto d’essere conservato nel manoscritto Bodleiano 171 (sec. XV, cart. di 389 ff) di Oxford. Esso costituisce, sì, l’ossatura del vocabolario di Maio, ma in quest’intelaiatura confluiscono innumerevoli altre voci, a cominciare dal De Orthographia di Giovanni Tortelli, che vi gioca un’incidenza analoga, concorrendo all’ordito di quella che per Giuniano voleva probabilmente essere – al di là dei fini meramente grammaticali – una vera e propria Realencyclopädie, come Carlo Vecce ha giustamente rilevato.
Ma, come scriveva Contini a Giuseppe De Robertis nelle sue Implicazioni leopardiane in risposta al saggio Sull’autografo del canto “A Silvia”, “la fortuna in letteratura è fonte di guai”. Leggendo il lavoro del collega, infatti, il critico e filologo di Domodossola non aveva resistito “alla tentazione di aggiungergli (…) un’appendice”.
Così è avvenuto anche per il De priscorum proprietate verborum. Sappiamo che, dopo la prima edizione del 1475, esso conobbe varie riedizioni, due trevigiane, nel 1477 e nel 1480, e tre veneziane (1482, 1485, 1490). Un primo snodo importante di questa “fortuna” è senz’altro stato rappresentato dall’edizione Confalonieri del 1480, che trasse giovamento dal lavoro di revisione dell’umanista di Salò Bartolomeo Partenio. Partenio – lo esplicitava nel paratesto – aveva portato avanti un lavoro di correzione di numerosi errori delle precedenti stampe e vi aveva inserito il greco, prima assente o traslitterato in modo non di rado scorretto.
Altro crocevia particolarmente significativo è dato dall’ultima edizione, risalente al 1490 e pubblicata dall’editore Giovanni Rosso da Vercelli, a Venezia. Un errore derivante dal fatto di non aver letto l’epistola prefatoria ha indotto i curatori di alcuni repertori, come Hain, ad attribuire l’edizione allo stesso Mattia Moravo. Tra l’altro, balza subito agli occhi come questa sia un’editio aucta, caratterizzata cioè da ampliamenti. Già il primo lemma, dedicato alla lettera – ma anche preposizione semplice – a evidenzia come la trattazione si sia accresciuta di nuove informazioni ed esemplificazioni. Andando avanti, si trovano nuove voci. Altri nomi geografici, curiosamente riconducibili alle aree della Gallia e della Germania; lemmi di carattere eziologico; altri di natura mitologica: sono questi i nuovi innesti nell’ordito precedente del dizionario. Nei primi si nota il ricorrere di una struttura frastica come non memorat Caesar, sed Tacitus. In tutti si rileva una caratteristica che non è tipica delle abitudini scrittorie di Maio. Giuniano menzionava sempre la sua fonte e, quando non lo faceva (si veda il caso di Isidoro da Siviglia), ciò era indice di un imbarazzo in merito all’‘usabilità’ della fonte stessa senza incorrere in critica. Nelle voci aggiunte, invece, la fonte non è mai esplicitata.
Ci siamo messi all’opera per identificare la provenienza di quelle voci e ci siamo riusciti quasi in tutti i casi. Le prime facevano subito pensare all’opera cesariana e ne abbiamo avuto conferma quando abbiamo consultato l’Index locorum in Commentario Caesaris Belli Gallici descriptorum di Raimondo Marliani, più volte pubblicato prima a Milano e poi proprio a Venezia. I lemmi di carattere eziologico provengono dalla traduzione di Gian Pietro d’Avenza dei Problemata di Plutarco, realizzata a Venezia intorno al 1453 e stampata per la prima volta nel 1477, sempre nel centro veneto, per opera di Domenico Siliprando. Le auctiones di carattere mitologico provengono da vari commenti di Domizio Calderini, umanista di Torri del Benaco, località vicina a Verona, pubblico professore a Roma, morto di peste nell’Urbe nel 1478, nemmeno trentacinquenne (si veda almeno la voce del DBI, curata da Giulio Natali: https://www.treccani.it/enciclopedia/domizio-calderini_(Enciclopedia-Italiana)/). A questa figura, altamente iconica, abbiamo dedicato uno dei nostri testi poetici, Domizio (lo trovate qui). Le uniche aggiunte che sembrano ricondurre all’area napoletana sono ulteriori voci dal De aspiratione di Giovanni Pontano (per l’approfondimento su quest’opera di Pontano – autore su cui siamo già intervenuti in questo articolo - rinviamo in particolare agli studi di Giuseppe Germano).
Il fatto che il modo di citare gli estratti sia diverso da quello usualmente adoperato da Giuniano e la possibilità di ricondurre quasi tutte le opere innestate al contesto editoriale veneziano, se non addirittura ad autori di origine veneta, ci ha fatto pensare a un’operazione tipografica piuttosto che a un intervento di un Maio a quell’altezza ancora vivo.
Avevamo tuttavia bisogno di una prova e dovevamo cercarla tra le parole del paratesto. Abbiamo così ripreso la lettera di dedica. Anche quest’ultima aveva subito modifiche. Vi compariva infatti il nome del nuovo editore, assente nel colofone al punto che alcuni repertoristi avevano attribuito a Moravo la stampa. Nella dedica del 1475 si diceva che “praecipue Mathias Moravus, vir summo ingenio summaque elegantia, in hoc genere impressionis effloruit”; si dava risalto cioè al valore dell’editore del volume. In quella del 1490 al vecchio stampatore si è sostituito il nuovo: “Precipue Ioannes Vercellensis, vir ingenio et elegantia, in hoc genere impressionis effloruit”. è venuto meno il riferimento evasivo all’opus inchoatum, l’alluso lessico di Calcillo, quando cioè Maio scriveva di essersi avvalso di un’opera abbozzata, che però era necessitante di emendamenti e aggiunte. Nel finale, poi, sono stati modificati i ringraziamenti. Nel 1475 si citavano due figure: Antonello Petrucci, segretario di Ferrante I, e Francesco Scala, regio consigliere; nel 1490 i ringraziamenti vengono sfrondati ed è citato il solo Petrucci.
Come si fa in questi casi, bisogna analizzare ogni singola modifica e capire a chi giova. L’unica che potrebbe giovare a Maio stesso è l’espunzione del riferimento velato al lessico di Calcillo, quello che gli avrebbe valso nel Cinquecento l’accusa di plagio da parte del Volterrano, poi ripetuta come un mantra dagli studi successivi.
Le altre modifiche, però, a Maio non giovavano affatto, soprattutto la seconda. Nel 1485 Petrucci era stato coinvolto nella Congiura dei Baroni. Arrestato, era stato giustiziato mediante decollazione nel 1486. Se proprio, per ragioni evidentemente di spazio, un ringraziamento doveva essere espunto, sarebbe stato opportuno eliminare quello a Petrucci, mantenendo il quale invece l’autore avrebbe potuto alienarsi il favore della corona aragonese. Che sia stata eliminata la gratiarum actio a Francesco Scala, che non solo non era caduto in disgrazia ed era vivo (diversamente da Antonello) ma addirittura nell’Ottantotto, accanto a Nicola Barone, Tommaso Vassallo e Giovanni Gioviano Pontano, compariva «tra gli ufficiali della corte cui veniva distribuito lo zucchero». Qualcosa, dunque, non torna o meglio tutto si spiegherebbe se l’operazione fosse stata compiuta in tipografia (e non da Giuniano): dovendo eliminare un ringraziamento tra due, il proto sceglie il secondo, che gli appariva senz’altro – com’era – il meno importante. L’espunzione del riferimento all’opus inchoatum ch’era stato sfoltito, emendato e ampliato per altri aspetti si spiegherebbe col fatto che chi leggeva e modificava la lettera, non conoscendo i fatti, non l’aveva semplicemente capito e l’aveva dunque reputato elemento rinunciabile.
La prova più stringente dell’operazione tipografica risiede però nella sostituzione del nome di Moravo con quello di Giovanni Rosso. Si sarebbe potuto, sì, attribuirla a Maio, ma c’è un elemento che non quadra con questa prospettiva ed è nascosto lì, tra parole che hanno attraversato i secoli. Nel lodare il suo primo editore, Giuniano lo aveva definito “vir summo ingenio summaque elegantia”; quei superlativi svaniscono, ora, riferiti al vercellese Rosso: “Ioannes Vercellensis, vir ingenio et elegantia”. Per quale motivo Maio avrebbe dovuto commettere un atto tanto sgarbato verso il suo nuovo editore, operandone una così evidente e sgradevole deminutio rispetto al precedente? Forse perché non fu lui a modificare la lettera, ma proprio Giovanni Rosso da Vercelli, autore probabilmente anche delle auctiones. Un atto di riconoscimento in limine del proprio lavoro, che però avrebbe rasentato il narcisismo se i superlativi fossero stati mantenuti. E, se è dunque vero che “siamo parlati” dal nostro linguaggio, allora anche quest’altro affascinante mistero delle auctiones può trovare, a distanza di secoli, piena risoluzione.
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