(Redazione) - Speciale "Mediterraneo" - Mediterraneo ed ancestrale : la capitolazione del capitalismo, di Giansalvio Pio Fortunato
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| Foto di Sara Groblechner su Unsplash |
L’universo dischiuso dal dionisiaco si insinua nel corredo costitutivo del Mediterraneo e lo avvale di un’interpretazione meridana e latitudinale che, certamente, meglio di ogni altra disamina antecedente, è stata in grado di definire un’identità. È interessante, in tal senso, entrare fin da subito nel punto cruciale di questa mia breve trattazione, evidenziando una sostanziale differenza tra il dionisiaco posto ed i comportamenti afferenti ad un simile codice interpretativo.
Perché
il dionisiaco,
preso per se stesso, costituisce una solida matrice interpretativa
che, essendo schietti, tradisce la sua stessa sostanzialità: anzi –
si può dire – ha ben poco a che vedere con essa. Certamente, gli
avvertimenti giungono da fonti autorevolissime, tali che il
dionisiaco,
così individuato, non si formalizzi altro che in un’espediente
ermeneutico, capace di raccogliere una serialità comportamentale o,
pari merito, una postura esistenziale e, dunque, una costitutività
di tipo artistico-simbolico in grado di fornire la congrua
consequenzialità rispetto ad una sfera personale: anche piscologica.
In soldoni: il dionisiaco
è
un archetipo capace di rendere conoscibile una sfera della psicologia
umana che, aldilà dell’indottrinamento e della formalizzazione
culturale, è connaturata all’umano, radicalizzandolo.
Il
dionisiaco,
dunque, non solo esemplifica quel primigenio connaturato, ma riesce a
rendere palese questa naturale ed irriflessa relazione col mondo,
oltre la “corruzione” educativa, oltre la standardizzazione
borghese o simil borghese. Il problema fondamentale, tuttavia, che
distacca il dionisiaco dall’essenzialità dionisiaca, si inscrive
nella sua figliolanza teorizzatrice. Una figliolanza teorizzatrice
che rende il dionisiaco
un
complementare dell’apollineo1.
Una figliolanza teorizzatrice che, archetipizzando,
costituisce eremeneuticamente2.
Il dionisiaco,
allora, è il modo di designazione osservante e trascrivente, che
appartiene molto più all’osservatore, al filosofo,
all’antropologo, che realmente ai soggetti ed agli individui ai
quali appartiene e dai quali è esso applicato.
Eppure,
come posto in apertura, il dionisiaco
è
la forma più radicale e meridiana di evidenziare un’esistenzialità
mediterranea, facendo quantomeno emergere un modo costitutivo di
stare al mondo che originariamente è appartenuto alla gente
mediterranea, al suo immaginario, al suo collettivo. L’ibridismo,
la carnale misticità, l’attaccamento alla terra, la religiosità
esoterica, lo spazio impulsivo, la naturale ed armoniosa ritmicità
coreutica, sono segni, seppur sparsi, di una relazione
caratterizzante il vissuto mediterraneo; dove, per mediterraneo,
intendo il Mediterraneo tutto.
Tuttavia,
è interessante il gioco del dionisiaco
perché, se da un lato offre una visione trasversale e meridiana di
un enclave esistenziale, dall’altra parte apre ad una genealogia
chiarificatrice che, come vedremo, distrugge questo enclave, pur
volendolo definire o, come da tendenza contemporanea, esaltare.
La
capitolazione del dionisiaco
è
sia, infatti, di carattere puramente teoretico sia di carattere
puramente capitalistico. Per inciso, perdonandomi questa strozzatura
ritmica, il riadattamento pratico – teoretico, separato
dall’esperienza marxiana e marxista, viene ad essere, per esempio,
rigorosamente smontato proprio da un campo riflessivo di questa
portata.
La
capitolazione è, allora, capitalistica, in quanto riguardante il
sottoproletariato3.
In particolare l’Italia meridionale, per esempio, è stata
investita da un movimento di esacrazione della condizione
sottoproletaria e di uniformazione utopistico-capitalistica del
sottoproletariato. In quanto fenomeno sottoproletario, infatti, il
dionisiaco
rappresenta
un tentativo, nemmeno così tanto celato, di investire la sfera
sottoproletaria di una giustificazione e di una sistematizzazione
tipico-borghese. Emotivamente, allora, la beatitudine
sottoproletaria, la sua manifesta purezza, è figlia di una
relazionalità borghese: è imposizione di un corrugamento narrativo
ed analitico, che guarda dalla parte confortevole del borghese e,
pari merito, dalla sua immanente resistenza. Così, il presunto grado
di purezza,
al quale spinge anche lo stesso Pasolini, non è figlio di una reale
empatia sottoproletaria, ma rappresenta semplicemente una risposta
dialettica all’inquadramento borghese. I sottoproletari non si sono
beati della loro continua lotta per la sopravvivenza; così come non
si beano della loro reclusione sociale, culturale e civile. I
sottoproletari non godevano/godono della loro creduloneria:
erano/sono atterriti dalla paura mistica e veleggiavano/veleggiano
verso le speranze universalistiche. I sottoproletari non assumono
minimamente le fattezze e le sembianze di incorruttibili: se possono,
anzi, barattare la propria condizione per un continuato stato di
benessere, accettano ben allegramente la “corruzione” borghese.
Socialmente,
i sottoproletari non mantengono incontaminata la propria estraneità
al capitalismo: anzi, la alimentano e la rendono ancora più solida.
Il legame alla terra, nel dettaglio, è subordinato alla possibilità
di accedere al sistema capitalistico. In una riflessione, tutt’altro
che poeticamente paesologa,
il ripopolamento dei borghi contadini è leggibile come un processo
culturale e storicistico solo dal lato borghese. È il borghese a
voler popolare borghi isolati, privi di un sistematico legame col
fulcro capitalistico. È il borghese che, assicuratosi del suo
benessere, vuole – come istintiva mercificazione culturale –
spingere la propria ideologia alienata a mercificare luoghi di
vissuto. Il sottoproletario, se non vede riqualificato il proprio
territorio di appartenenza, fugge per esigenza. Di un’esigenza, sia
chiaro, pur sempre costretta dal sistema capitalistico: ma non
valorizza, non alimenta, non irrobustisce nel sogno.
Il
sottoproletario, inoltre, per il suo essere tale alla luce
dell’universalismo capitalistico, decide di raccogliere dal sistema
stesso che lo schiaccia e fa convogliare energicamente il proprio
sistema produttivo verso la dura legislazione capitalistica. Lo
sversamento di rifiuti tossici, la coltivazione intensiva, il
dopaggio del bestiame, la rinuncia agricola per la buonuscita
industriale, l’emigrazione per difficoltà logistiche,
l’accentramento verso le città di smistamento borghesi,
rappresentano i veri statuti socio-economici del sottoproletario.
Ogni agapica convivenza comunitaria è solo onirismo fittizio di
ipocriti intellettuali – se definibili tali – di orientamento
borghese.
Valorialmente,
il sottoproletariato è certamente il concentrato di una
concettualità e di un’intenzionalità alter-borghese. Non può
difendersi, tuttavia, da una pervasività di tipo capitalistico, non
avendone i mezzi né analitici né culturali. L’esoterismo
territoriale, la sacralità intrinseca, la lingua terrosa e
connotativa, lo contrattura sociale sono, talvolta positivamente e
talvolta negativamente, continuamente permeati da un sostrato di
massificazione e mediaticità culturale (elemento, questo, proprio
della cultura capitalistica). Sicchè la reazione allo strenuo
mantenimento di modi di pensiero, di modi di vissuti, di scheletri
simbolici, di linguaggi omogenei, di relazionalità tipiche, viene
continuamente permeata dalla promessa culturale evolutiva, che
attecchisce proprio nella rempetinità capitalistica del
dissolvimento. Il sottoproletariato, per intenderci, non è vaccinato
alla culturalizzazione capitalistica4,
non conoscendone le fattezze e non potendone quindi sviluppare le
contromisure. Per la promessa, tuttavia, di un sostanzioso
avanzamento culturale, il sottoproletariato raccoglie completamente i
contenuti mediati dalla cultura capitalista, producendo,
probabilmente, per quest’ultima, la sua più completa
realizzazione. La massificazione di condivisione e di dialogo
a-critico, che già naturalmente avviene nella mediocre cultura
borghese, fornisce quell’autorità tale da rendere i valori appresi
non coscientemente, o con un sostrato di sudditanza, il vero nuovo
istituto culturale del sottoproletariato. Un sostrato culturale tale
da sostituire all’indrottinamento sistematico una liberalizzazione
che toglie ogni prospettiva di critica autonoma e personale.
Questo
complesso di ricostruzioni pratico-capitalistiche, ovviamente, si
regge sulla possibilità teoretica essenziale: la distanza percettiva
e cosciente tra analisi sul dionisiaco
e
dionisicità.
La
riflessione ermenuetica, in tal senso, malgrado la sua portata
dirompente, ha mostrato tutte le sue residualità ed i suoi limiti
oggettivi. Se in un’ottica morale, infatti, il dionisiaco
mostra per la prima volta la fittizia operatività utilaristica della
designazione misurata del vissuto. Se il dionisiaco
evidenzia
un a-priori non immanente, non oggettivo, non universale, ma ne
esalta sentitamente le oppressioni epistemiche e percettive: le
sodomie. D’altra parte, la sua capacità empatico-percettiva è
sempre un passo indietro rispetto alla sua essenzialità.
Lo
è in un grado psicologico: essendo l’irrazionale o l’irriflesso
motivi tutt’altro che già contenutistici, rendibili piuttosto
nella molto più problematica designazione somato-fisiologica,
convivente e co-operante con una designazione significativa e di
coscienza.
Lo
è in un grado artistico: non serializzabile, non definibile entro
una canonicità operativa. La forza pulsionale, che spingerebbe ad
un’espressività estatica, ha in realtà il merito di non essere
formalizzabile in una sistematicità verbale e musicale. Essa si
regge sulla naturale inclinazione all’espressione, sulla tensione
fungente ad un complesso di significati o di materialità sonore non
filtrate, non mitigate. L’autentico dionisiaco,
per intenderci, non è l’abissale istinto alla creazione artistica5
come non è la risposta silenziosa e solipsistica alla propria
interiorità. Il dionisiaco
è,
piuttosto, lo spurio: la semplice volizione espressiva, che non tiene
conto di eventuali condizionamenti esterni, di forme, più o meno
claustrofobiche, di semplice ripetizione o indirizzo rendente.
Lo
è in un grado fenomenologico.
NOTE
1 Il primo rimando basilare, ovviamente, è al Nietzsche de La nascita della tragedia e all’impossibilità di rendere il dionisiaco come autentico dionisiaco. Se fosse tale, infatti, ci troveremmo innanzi ad un mutismo continuativo o ad una ibrida vocalizzazione, non pienamente concettuale (di un concettuale classicamente definito, ovviamente).
2 Con tutte le retrosie – non le nascondo – che la fenomenologia muove all’ermeneutica.
3 In un’accezione pasoliniana: non rigorosamente marxiana. In un contesto cittadino, com’era quello dell’Inghilterra industrializzata di Marx, non v’era altra strada, per chi non rientrava nell’alienazione borghese-industriale, che la micro-criminalità o il lavoro non legale. In Pasolini, invece, il sottoproletario è rappresentativo del contesto contadino, non “contaminato” dall’arrembaggio borghese.
4 Non stupisce, non essendo nemmeno il cuore intellettuale del nostro tempo estraneo alla forzatura culturale capitalistica.
5 Questa, anzi, ben calibrata, ben orientata. Vedi tutta la mia rubrica Fisiologia dei significanti in poesia (Le Parole di Fedro, 2024-2025).

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