(Redazione) - Passaggio in Grecia (Το πέρασμα στην Ελλάδα) - 08 - Poesie di Kiki Dimoulà

   
Di Maria Consiglia Alvino 


Kiki Dimoulà (Atene, 6 giugno 1931 – Atene, 22 febbraio 2020), nata Vassiliki Radou, è stata una delle voci più importanti della poesia greca contemporanea. Lavora per tutta la vita come impiegata della Banca Nazionale Greca. Esordisce nel 1952 con la collezione «Poesie» e pubblica successivamente «Buio» (1956), «In contumacia» (1958), «Sulle orme» (1963), «Il poco del mondo» (1971), «Il mio ultimo corpo» (1981), «Addio mai» (1988, Premio nazionale di poesia greca) e «Per un attimo insieme» (1998). Con la raccolta «L’adolescenza dell’oblio» (1994, pubblicata in italiano da Crocetti nel 2007) vince il Premio dell’Accademia di Atene. Più volte candidata al Nobel, è stata tradotta in numerose lingue. In Italia, oltre al già citato volume di Crocetti, è disponibile il volume Addio mai. Poesie 1956 – 2016, a cura di Paola Maria Minicucci e Francesca Zaccone, edito da Donzelli nel 2025, che ne raccoglie l’intera produzione.Sorta dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, la poesia di Kiki Dimoula si nutre del senso del vuoto, del silenzio, della memoria, della nostalgia, di una fede in nessuna cosa se non nella parola. La versificazione è breve, cantano gli oggetti, nella loro quotidiana metafisica, in una commistione costante tra realtà e astrazione, immaginazione e quotidianità. L’io lirico salta, più spesso compare un tu, saltano i verbi di azione, l’io permane come spettatore cinematografico di una realtà inattingibile se non per brevi tratti. Tutto, la polvere, la pioggia, una foto, un giornale, perfino una forma grammaticale, può diventare per Dimoula un oggetto poetico e aprire, spesso con ironia, la strada a miriadi di significati inespressi, schiudendo la soglia tra chiarità e oscurità, tra suono e silenzio.
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TESTI
(Traduzioni di Maria Paola Minucci da “L’adolescenza dell’oblio”, Crocetti Editore 2007).

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La “o” disgiuntiva

Mi ha chiuso in casa la pioggia
e ora dipendo dalle gocce.

Ma come sapere se è pioggia
o lacrime dal cielo profondo di un ricordo?
Sono troppo cresciuta per dare
senza riserve un nome ai fenomeni:
questa è pioggia e queste sono lacrime.

Rimango asciutta tra
due possibilità: pioggia o lacrime,
e tra tante ambigue realtà:
pioggia o lacrime,
amore o modo di crescere,
tu o piccola oscillante ombra
dell’ultima foglia che saluta.
Ogni ultima cosa,
la chiamo ultima senza riserve.

Sono troppo cresciuta
perché questo sia motivo di lacrime.
Lacrime o pioggia, come saperlo?
E continuo a dipendere dalle gocce.
E sono troppo cresciuta
per aspettare una misura quando piove
e un’altra quando non piove.
Gocce per tutto.
Gocce di pioggia o lacrime.

Dagli occhi di un ricordo o dai miei.
Io o il ricordo, chi lo sa.
Sono troppo cresciuta per distinguere i tempi.
Pioggia o lacrime.
Tu o piccola oscillante ombra
dell’ultima foglia che saluta.

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Fotografia 1948

Ho un fiore in mano, forse.
Strano.
Nella mia vita deve esserci
stato un giardino un tempo.

Nell’altra mano stringo
una pietra.
Con fiera grazia.
Nessun sospetto
per preavvisi di mutamenti,
sentore di difese piuttosto.
Nella mia vita deve esserci
stata ignoranza un tempo.

Sorrido.
La curva del sorriso,
il cavo del mio umore,
somiglia a un arco ben teso,
pronto.
Nella mia vita deve esserci
stato un bersaglio un tempo.
E predisposizione a vincere.

Lo sguardo affondato
nel peccato originale:
assapora il frutto proibito
dell’attesa.
Nella mia vita deve esserci
stata fede un tempo.

La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole.
Addosso un’uniforme d’incertezza.
Non ha ancora fatto in tempo a essermi
compagna o delatrice.
Nella mia vita deve esserci
stata abbondanza un tempo.

Tu non ci sei.
Ma se c’è un precipizio nel paesaggio
se io sto sull’orlo
con un fiore in mano e sorrido,
vuol dire che da un momento all’altro arriverai.
Nella mia vita deve esserci
stata vita un tempo.

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Cravatta nera


Innaffia tu la pianta
e lasciami piangere.
Scrivi però le ragioni,
forse devo altro dolore.
Voglio avere la coscienza in pace
di avere sofferto per tutto.

Scrivi che piango per uno specchio.
Un tempo oggetto ornamentale,
oggi oracolo.
Per la brusca buonanotte
che danno le poche possibilità
e si dileguano.
Scrivi che piango per la tua finestra,
chiusa e senza saluti,
melanconica per nascita.
Per gli uccelli dell’ultimo decennio.
Il loro terrore delle antenne televisive.
Per il loro adattarsi
e svolazzare
tra questi alberi di ferro.

Scrivi.
Per questo sabato sera sepolto
tra due cipressi
nella chiesa di campagna.
Per la luna in lutto – indossa
una cravatta nera nuvola,
scrivi che piange.
Piango perché mi hai chiesto
se ho visto la luna piena.
No, non ho visto niente di pieno, non ho vissuto.
Piango perché i ragazzi portano lo zaino
come una conoscenza già completa,
e non entrano nel tenero rassicurante
delle ore ancora acerbe
e non giocano.

Scrivi che piango per le madri.
Le più antiche madri.
Belle ed esili,
amanti delle finestre,
arpiste della vedetta
che la morte ha colto impreparate
e sono longeve materne
nelle fotografie del salotto
e nei ricami.

Piango perché hanno acceso le luci
e la domenica gatta raggomitolata
sulla mia finestra.
Scrivi che piango per le bufere,
il poco cibo,
per tutto il Poco,
per i terremoti
senza preavviso.
Piango perché va sprecata
la notizia che mi hai dato
della prima farfalla vista ieri.
Piango perché non fa notizia l’effimero.

Scrivi. Piango
perché la sorte si è chiusa in casa,
la dilazione è arrivata al boia,
la borraccia è arrivata nel deserto,
la gioventù nella fotografia.
Piango perché chissà chi chiuderà
dei miei giorni gli occhi.

Innaffia tu la pianta
e lasciami piangere perché…
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