(Redazione) Specchi e labirinti - 02 - Invito alla lettura di Immanuello Romano, amico (?) di Dante

 

A cura di Paola Deplano

Dante Alighieri, uno di noi. Anche lui aveva degli amici, come tutti.

Guido, i’ vorrei che tu, Lapo ed io (incipit dell’omonimo sonetto);
«Casella mio, per tornar altra volta//là dov’io son, fo io questo vïaggio» (Purg. II, vv. 91-92);
E ravvisai la faccia di Forese. (Purg. XXIII, v.48);

Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Casella, Forese Donati ebbero l’onore di essere esplicitamente menzionati dall’Alighieri nelle sue opere, ma non erano, ovviamente, i suoi unici amici. Complici anche le peregrinazioni successive al bando da Firenze, egli venne a contatto con altri intellettuali che ebbe modo di conoscere ed apprezzare, legandosi a loro anche affettivamente. Durante il soggiorno a Verona, presso la corte di Can Grande della Scala, egli probabilmente conobbe e apprezzò Immanuello Romano, anche lui in esilio nella città scaligera in quegli stessi anni.
Immanuello Romano, conosciuto anche come Manoello Giudeo o ‘Immanu’èl ben Shlomò ha Romì, figlio del rabbino Shlomò della famiglia Zifronì, nacque a Roma intorno al 1265. Ebbe come maestri Zerachyà Chen e il medico Benyamin ben Yechièl e probabilmente anch’egli esercitò la professione medica. Esule dopo il 1321, fu ben accolto nelle città dove trovò rifugio: Fabriano, Gubbio, Perugia, Orvieto, Ancona, Camerino, Fermo e Verona. Legato alla “scuola filosofica romana”, il cui maggior esponente era suo cugino Yehudà Romano, venne molto stimato dai poeti nel suo tempo, sia ebrei che cristiani. Fu conosciuto anche per i suoi commenti biblici, che non solo espongono il significato letterale del testo, ma si addentrano anche in quello allegorico e mistico. Incerta la data della morte: essa si colloca dopo il 1328 (data citata nelle sue Machbaròth), ma non oltre il 1331.1
Immanuello Romano è da molti ritenuto il maggior poeta ebreo del Medioevo, poiché è riuscito a fondere e ad amalgamare in modo originale la grande tradizione poetica giudeo-spagnola con la poesia in volgare italiano, sia stilnovistico che giocoso. Un ingegno flessibile, abile e arguto, capace di introdurre nei suoi versi in ebraico un nuovo sistema metrico fondato su quello italiano e di arricchire la poesia in volgare italiano con temi, espressioni e vocaboli ebraici. Per quanto riguarda il volgare, è autore di quattro sonetti e una “frottola” dal titolo Bisbidis, che gli hanno valso un piccolo spazio accanto ai poeti del Trecento di ispirazione realistico-giocosa. In ebraico egli scrisse, oltre a molti commenti biblici, una sorta di prosimetro dal titolo Machbaròthcomposizioni, suddiviso in ventotto sezioni di argomento vario, che si concludono con un immaginario viaggio nell’oltretomba su
imitazione della Divina Commedia dantesca dal titolo Ha-Tofet ve-ha-Eden (Inferno e Paradiso).2

In questo viaggio immaginario nell’Aldilà Immanoello viene guidato e scortato da un misterioso personaggio di nome Daniele che, secondo alcuni critici, adombra Dante Alighieri, con cui Manuello sarebbe stato effettivamente in contatto al tempo in cui entrambi si trovavano in esilio a Verona. La sua presenza nella città scaligera più o meno nel periodo in cui Can Grande della Scala accoglieva anche Dante ha suggerito la suggestiva ipotesi che fra i due ci sia stata una reale amicizia. Le opinioni in proposito sono controverse: in passato i lavori di Modona, Debenedetti e Cassuto hanno escluso un legame diretto tra i due, mentre alcuni saggi più recenti di Giorgio Battistoni propendono invece per una contemporanea presenza alla corte scaligera e per un effettivo legame di stima e di amicizia. In tempi ancora più recenti, Fortis suggerisce l’ipotesi che la scuola filosofica romana sia il substrato comune sia di Immanuello che di Dante.3

Potrebbe essere quindi essere Dante l’enigmatico fratello a cui Immanuello, nella sua opera, riserva un trono in Paradiso:

E avvenne che quando udii tali parole ricordassi l’eccellenza di mio fratello Daniele
che mi aveva guidato sulla strada della verità, che aveva raddrizzato il mio sentiero
e che mi era stato vicino quando ero fuggiasco;
sacro diadema posto sulla mia fronte,
vita della mia carne, della mia vita e del mio spirito,
[E quanto alle] Narrazioni della sua grandezza,
e della sua generosità ed elevatezza,
e del suo intelletto e del suo giudizio,
e della sua umiltà e della sua giustizia,
le estremità della Terra erano colme della sua lode.
E dissi all’Uomo che mi reggeva la destra:
«Deh, mio Signore,
mostrami il luogo di Daniele mio fratello e il suo posto,
e qual è la casa che costruirete per lui e qual è il sito del suo riposo»
Ed egli mi rispose: «Sappi per vero che il suo grado è assai elevato:
le estremità della Terra erano colme delle sue lodi;
e per quanto il tuo grado sia troppo basso per giungere a lui,
in quanto egli ha perdonato il peccato di molti ma colpisce i peccatori,
poiché l’Intelligenza Superiore sapeva che senza di te non avrebbe trovato pace e tranquillità,
elevò la tua tenda presso la sua tenda;
e per quanto il tuo valore sia inferiore al suo,
sapendo la Sapienza che egli troverà diletto al tuo fianco,
egli sarà per te come Mosè e tu sarai per lui il suo Giosuè,
affinché quando vedranno che le vostre anime aderiscono e che non si separano, tutti dicano:
«Possono due persone andare insieme se non si sono date appuntamento?» 4

Fu vera amicizia? Nessuno, a tutt’oggi, può dirlo con certezza, ma niente vieta di immaginarli, con gli occhi del sogno, mentre attraversano il corridoio luminoso che conduce al cospetto del Signore di Verona. Si guardano in viso, sorridendo appena – e parlano a bassa voce di poesia.
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NOTE

1 Cfr. Umberto Fortis, Manoello volgare. I versi italiani di Immanuel Romano (1265-1331?), Salomone Belforte & C., Livorno 2017, pp. 21-22.
2 Cfr. Ivi, p. 17. Remo Fasani sostiene che a tali opere vadano aggiunte Il Fiore e Il Detto d’Amore, fino a quel momento erroneamente attribuite a Dante (Cfr. Remo Fasani, Il Fiore e Il detto d’amore attribuiti a Immanuel Romano, Longo editore, Ravenna 2008).
3 Cfr. Ivi, pp. 21-26.
4 Immanuello Romano, L’Inferno e il Paradiso (a cura di Giorgio Battistoni), Giuntina, Firenze 2000, pp. 86-87.
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