L’urlo più lancinante di tutti - un racconto di Antonella Perrotta
Sono nata piccola, sgusciata fuori tra le tue gambe nel tempo dell’urlo più lancinante di tutti. Non so dove lo prendesti l’ossigeno per quell’urlo, tu, così minuta. Lo raccontava mia nonna, tua madre, che non aveva mai sentito prima una partoriente lanciare un urlo come il tuo.
Mi attaccasti al seno di mala voglia, (me lo diceva sempre nonna, tua madre). Poi iniziasti a piangere e il pianto mio si confondeva col tuo, ma non era lo stesso pianto, non credo: io ti cercavo e per questo piangevo; tu volevi che ti stessi lontana e per questo piangevi.
Piangemmo entrambe per mesi finché io mi rassegnai e imparai a sorridere mentre tu continuavi a piangere. Avrò scoperto per caso la gioia di un sorriso e avrò pensato che era preferibile al piangere. Mentre tu, di piangere, non potevi più farne a meno.
Fu per questo che ti rinchiusero in manicomio, ancora esistevano. Quando i manicomi furono chiusi, ti lasciarono andare. Tornasti a casa che avevo già otto anni, e neanche mi guardasti. Forse non sapevi neppure chi fossi, non lo ricordavi più il giorno in cui ero sgusciata tra le tue gambe e tu avevi urlato e non avevi più smesso di piangere. Mio padre, tuo marito, mi disse che in manicomio avevi imparato a urlare ancora più forte e che per questo ti avevano legata a un letto e fatto su di te degli esperimenti con la corrente elettrica.
“Ma la corrente elettrica serve per illuminare le stanze!” esclamai quando me lo disse, e rivolsi gli occhi alla lampadina che pendeva dal soffitto della cucina.
“A tua madre volevano illuminarle il cervello” mi rispose. Ma - nel vederti vagare per casa con l’angoscia del nulla sul volto, come il prete al catechismo diceva vagassero le anime inquiete che non avevano trovato ancora un posto nell’aldilà – pensai che il cervello te l’avessero spento.
Adesso neanche piangevi più. Non avevi più reazioni, e capii che non provavi neanche più emozioni. Io ero un’estranea, tuo marito era un estraneo e persino nonna, tua madre, lo era, anche se a volte mi sembrava che lo sguardo ti s’illuminasse quando ti veniva vicina e ti accarezzava i capelli. Io, invece, vicino a te non venivo. Ti osservavo a distanza, ma tu non mi vedevi. Non mi vedevi neppure se provavo ad avvicinarmi un po’.
Un giorno, però - avrò avuto dieci anni - mi sedetti di fronte a te e cominciai a fare le smorfie. Continuasti a non vedermi. Allora presi a urlare, anche se il mio urlo non era come il tuo. Ma tu non mi sentisti. Ti afferrai per i capelli e li tirai forte, fortissimo. Tu ti alzasti di scatto, afferrasti un coltello dal cassetto della cucina e provasti a colpirmi. A colpirmi, non ci riuscisti, continuavi a non vedermi davvero, avevi soltanto percepito un pericolo.
Fu allora che mio padre, tuo marito, decise che non potevi più stare con noi. Diventasti “pericolosa per te e per gli altri” e ti rinchiusero nuovamente. Ora la tua galera si chiamava ospedale psichiatrico.
Questa volta, a piangere, fui io. Non avrei dovuto provocarti. “Perché hai tirato i capelli a tua madre?”, mi chiese mio padre.
“Perché mi vedesse” gli risposi.
Da quel giorno entrasti e uscisti da casa seguendo ritmi precisi. Un’incostante presenza, la tua, costante soltanto nella sua ritmica incostanza. Ora i capelli ti si erano fatti grigi, le rughe sulla fronte marcate, eri sempre più minuta, soltanto gli occhi rimanevano uguali e continuavano a vagare nel nulla.
Io, adolescente, cominciai a sperimentare la colpa del mio essere venuta al mondo. La mia stessa esistenza era una colpa: quella di avere causato la tua pazzia. Prima non l’avevo pensato. Eri tu la strana, prima. Eri tu che sapevi soltanto piangere; tu che non sapevi vivere e non riuscivi a sorridere. Ma un giorno scoprii le fotografie in cui eri una ragazza bellissima e sorridente, e quelle del tuo matrimonio e dell’ultima estate in montagna. Sorridevi in tutte. In montagna calzavi un paio di scarponcini alla caviglia, vestivi un maglione pesante e portavi in testa un berretto calato fino alle orecchie. Chissà quali fossero i colori del tuo maglione e del tuo berretto. La fotografia in bianco e nero non me lo disse. Eri di spalle in quella foto, e ti voltavi verso qualcuno sorridendo e mostrando tre quarti del viso. Papà mi disse che sorridevi a lui che scattava la foto. Fu dopo aver visto le foto che pensai che, il sorriso, te lo avessi spento io. Dei giorni in cui piangevi, invece, non ho trovato foto. Dei giorni in cui anch’io piangevo in braccio a mia nonna, ce ne sta soltanto qualcuna. D’altronde, non c’era ragione di fotografare una colpa per renderla ancor più evidente e ricordarla ai posteri.
All’epoca, non sapevo che esistesse una depressione post partum e, probabilmente, non lo sapevano neanche i medici che ti avevano chiusa in manicomio e spenta con le scosse. All’epoca, passai in un attimo dal dolore di non aver mai visto mia madre sorridere all’angoscia della colpa. Nessuno mi aveva punito, eppure l’avrei meritato. All’epoca, mi punii da sola. Perché il tuo dolore doveva essere anche il mio; le tue lacrime, le mie. Anche le torture che ti avevano inflitto mi dovevano appartenere, ero io ad averle causate.
Può il nascere di una vita provocare dolore?
A quel tempo, pensai di sì. Ci ritrovammo, madre e figlia, unite in un legame più forte di qualsiasi legame, un legame solo nostro, che nessun altro avrebbe mai potuto comprendere. Nascita e sofferenza facevano di noi un corpo solo, un unico essere che piangeva la venuta al mondo. Io mi tagliavo, seghettavo la carne dei miei polsi, delle braccia, delle cosce, e nascondevo le ferite sotto i vestiti. Tu mi guardavi, a te sola le mostravo, le mie ferite, mostravo i segni del nostro legame, ma non so se riuscissi a vederli.
Quando te ne sei andata per sempre non sembravi cambiata. Avevi gli occhi chiusi che non guardavano il mondo, ma il mondo tu non lo vedevi neanche prima. Quando te ne sei andata per sempre, ho smesso di ferirmi. Avevamo entrambe già scontato le nostre pene. Non c’era più ragione di urlare con l’urlo più lancinante di tutti né di nascondersi nel silenzio più assordante di tutti. Avevamo sempre comunicato per eccessi, tu ed io.
Oggi il mare grida, a volte. Lo sento arrabbiarsi dalla finestra, sbattere le onde sulla battigia per poi tornare indietro e colpirla nuovamente senza pietà. Finché si placa. Allora smette di urlare e colpire e per lui nulla è successo, mentre la battigia si asciuga e si ricompone alla meglio, ma mai resta uguale a prima ché, invece, tutto è successo. Oggi il mare grida dentro, a volte. Porta appresso il tuo urlo e il tuo silenzio, le tue lacrime e la tua assenza. Sei tu, il mio mare, ed io mi faccio battigia, mi lascio sferzare, impotente, provo a ricompormi, ma nulla è uguale a prima ché tutto è successo.
Avrei voluto bere dal tuo seno, avrei voluto chiamarti “mamma”, avrei voluto essere anch’io in quelle foto in cui sorridevi, e sorridere con te. Avrei voluto non essere battigia o che tu fossi mare cheto.
Oggi, so che non è mia la colpa, non è dell’essere cresciuta nel tuo grembo e sgusciata tra le tue gambe. E so anche che non hai colpe nemmeno tu, mamma, che mai ci sei stata eppure ci sei ancora. Nel tuo sorriso mancante.
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NOTE BIOBILIOGRAFICHE
Antonella Perrotta nasce la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Laureata
in giurisprudenza, vive e lavora in Calabria e collabora con riviste e blog culturali.
Con
Ferrari Editore pubblica il suo primo romanzo, Giué
(2019),
cui segue Malavuci
(2022), finalista al Premio Nabokov 2022 per la narrativa edita.
Suoi
racconti sono presenti in volumi collettanei per Ferrari Editore e
Divergenze Edizioni. Di prossima pubblicazione il suo terzo romanzo.
Nel 2023 fonda Sine
Pagina,
blog di libere scritture.
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