(Redazione) - AJAR (luccicanze) - 02 - Un sogno, o forse un mosaico


di Alba Gnazi

Ancora lo stesso sogno. Tra le braccia tengo un bambino piccolissimo che lavo dolcemente nella vasca del bagno con le piastrelle bordò, quello della mia casa d'origine. L'acqua ambrata, profumata di sandalo, scorre su quel morbido corpo paffuto che pesa lievissimo, e tintinna in gocce minute sulle corolle di schiuma addensate sul fondo.
Ricordo di aver trovato il bambino in una casa diroccata, sorvegliato da un cane bianco e gentile.
Prima non era il mio bambino, ma ora lo è.
Gli canto una canzoncina; gli sussurro il nomignolo intonato dalla voce sottile di Nonna Anna. Nonna Anna non lo sa - o forse sì: in fondo chi sono io per stabilire confini e barriere? Forse lei sa, in quel "mentre" in cui abita da vent'anni o poco più -, come e quanto le parole in dialetto che usava sempre stiano venendo su, a una a una, nel mio quotidiano.
Qui un'esclamazione, lì un vezzeggiativo, altrove un'espressione fatta e finita, con tanto di cadenze, dei ritmi verdi e dolci dell'alta Umbria.
Si torna alle origini in più modi, quando si cresce. Quando si invecchia. Quando lo sguardo sui giorni nei giorni cambia. Si riaprono canali e scorciatoie antiche, praticate, sommerse, che aspettavano in un sottoscala il momento buono per migrare alla luce.
Il bambino pesa impalpabile, un soffio piumato, una brezza. Mi' cocco, gli sussurro. Mi' cocco.
Poi mi sveglio.
Mi’ cocco.
Echeggia lo spiro di sogno sulle labbra intorpidite e proietta nel presente ciò di cui il presente è privo, l’ologramma sonoro di vite scomparse, di consuetudini a nomi e cadenze sottratte al quotidiano da alacri dita impietose.
In casa – nel senso di comunità di abitazioni adiacenti o vicine – si parlavano il dialetto alto-umbro dei nonni paterni e soprattutto quello della provincia a nord di Roma.
Entrambi concorrevano a sostanziare l’appartenenza, la definizione di identità; a contrassegnare la raggiera culturale in cui ci si muoveva tra le mura domestiche, nei dialoghi, nelle battute, nelle esclamazioni, nei bisticci, nei sogni.
Se alcune parole del dialetto dei nonni spesso distavano dall’italiano standard, la variante regionale della zona a Nord di Roma in cui vivevamo non se ne distaccava particolarmente. Era più una questione di pronuncia: dal raddoppiamento ai troncamenti, passando per tutta una serie di altre coloriture (- chebbello -, -‘ndostaianna’-, -ekkiudistaporta! -) talvolta grevi, magari buffe, comunque efficaci e ben assestate, distribuite in diversa dose e con diversi toni, accenti, ritmi nel parlato quotidiano.
Insomma, l’italiano “corretto” lo si conosceva, lo si leggeva, lo si scriveva, ma a casa e nelle zone attorno si parlava il dialetto. L’italiano scritto in effetti rappresentava la prima freccia scagliata all’esterno di quella comfort zone.
A volte ripenso alle prime, malsicure prove di scrittura, accompagnate dalle correzioni teatrali dell’insegnante del primo e secondo anno di scuola elementare, rese ancora più terrificanti dalle urla belluine e dagli scappellotti, insieme alla immancabile, odiosa esibizione a tutta la scolaresca dello scempio compiuto sul quaderno a causa delle troppe cancellature – poveretta me, poveretti noi.
Trascorso il periodo di rodaggio ortografico, acquisita una maggiore disinvoltura nell’esporre a voce alta le paginette da leggere come compito a casa, mi accorsi che la questione si andava facendo piacevole. Anzi, di più: che era coinvolgente e divertente, oltre che piacevole. La lettura mi procurava un benessere fisico, di pelle, sensi e sensazioni; mi creava intorno una sorta di cerchio opalescente in cui nessun rumore, nessun fastidio, nessun accidente avevano la possibilità di entrare. C’ero io, insieme alle parole e tutti i mondi immaginabili. Si stava comodi, si stava bene.
La sera per leggere intraprendevo crociate contro il sonno, immersa nei libri di narrativa che trovavo nella libreria materna, nella biblioteca scolastica, sugli scaffali di amici e conoscenti. Quando scrivevo adoperavo nei temi e nei racconti i termini appena scoperti per scommessa, necessità e diletto; riversavo sulle pagine bianche le circonvoluzioni, gli snodi, le vitali facezie del mio avanzare con ali lustre e antenne ipersensibili in quel gigantesco, appassionante mondo linguistico.
L’italiano era gioia, musica, abbraccio.
Era il forziere ricchissimo di aggettivi, verbi, nomi, segni d’interpunzione: tutti lì per me, da scoprire, lasciar scivolare dentro una frase, assaporare nelle diverse combinazioni che mi permettevano di scendere fino in fondo a un pensiero, di abbordarne il senso e poi assaltarlo da dentro. Di nominare, portare alla ribalta, incastonare e lucidare certe pietre umorali grezze, taglienti, che scrivendo trovavano una via d’uscita, una locazione nel reale – o, se necessario, un oblio, una rapida dissoluzione.
L’inglese è “arrivato” quando ero piccola, credo intorno ai cinque, sei anni. Lo sentivo parlare dai parenti di un amico di famiglia trapiantato in Italia dall’Inghilterra, che spesso capitava in visita a casa nostra portando con sé alcuni familiari. I miei genitori l’inglese non lo capivano. Comunicavano nei modi a loro più prossimi, più congeniali: con gli sguardi, coi sorrisi, coi boccali di vino e i piatti sempre pieni, con la casa sempre aperta, con le canzoni cantate nelle sere estive, quando le notti si facevano più lente e le facce abbronzate ne accoglievano le ombre chiare, le movenze seduttive.
Ascoltavo lo sciabordio dei dialetti e delle lingue, i lembi delle terre improvvisamente accostati, vicinissimi. Un’unica frequenza nella poliedria degli accenti.
Quei suoni, quegli scoppiettii improvvisi, quelle pause inattese mi affascinavano. Avevano un sapore fresco, di mari sconosciuti eppure navigabili, di porte socchiuse su stanze inondate di luce, di orizzonti spalancati. Li provavo, quei suoni, assumevo in me la metamorfosi delle labbra e del palato, le altezze inesplorate della voce, producendo sussurri pieni di meraviglia, attenta a non farmi scoprire.
Forse è stato lì che è iniziato il riconoscimento dello “straniero” che era in me, per dirlo con Julia Kristeva; lì che ha preso avvio la mia personale, ininterrotta "apertura delle porte", come la definisce Jhumpa Lahiri in "Perché l'italiano? Storia di una metamorfosi" (Einaudi 2025).
Nel capitolo iniziale del testo Lahiri descrive benissimo questo processo di scelta, di affrancamento, di innesto. Lo fa inserendosi all'interno di un percorso tracciato da Lalla Romano, autrice che ampiamente cita. Riporto entrambe:

La porta non è ancora chiusa, però sta per chiudersi. Uno dei battenti, alto e massiccio, ricade lentamente sull'altro. Corro e riesco a passare. Di là c'è un'altra porta, uguale alla prima. Anche questa è sul punto di chiudersi; anche questa volta, correndo, riesco a passare. Ce n'è ancora un'altra, poi un'altra. Occorre molta prontezza per arrivare in tempo.

(Lalla Romano, op. cit., pag.16)

Da più di vent'anni, da quando mi sono immersa in questa lingua [n.b.: l'italiano], da quando me ne sono innamorata, fatico ad aprire una serie di porte. Ognuna mi conduce a un'altra. Più ne affronto più riesco a passare, più se ne presentano altre da aprire, da superare. [...] Leggendo, scrivendo, vivendo in italiano mi sento una lettrice, una scrittrice, una persona più attenta, più attiva, più curiosa. [...] Considero porte i libri che leggo, le frasi che scrivo, i testi che riesco a finire. E ogni conversazione con un mio amico italiano, ogni occasione di esprimersi. [...] Non voglio vivere, non voglio scrivere in un mondo senza porte. [...] Un paesaggio del genere, senza spazi chiusi, senza segreti, senza la presenza dell'ignoto, sarebbe privo di senso, privo d'incanto per me.

(Jhumpa Lahiri, op. cit., pagg.17,18,19)

Se si applica lo stesso pattern utilizzato da Lahiri per l’italiano a un qualsiasi altro idioma si ottiene, coi dovuti distinguo, più o meno il medesimo risultato.
I tempi, i modi, gli scopi, gli usi, i moventi interiori sono diversi, certo: ma la sostanza resta pressoché quella: entrare dentro una lingua comporta una serie innumerevole, potenzialmente infinita, di porte da aprire, di variabili da ricercare incessantemente, sperimentando, solcando, squarciando, dando luogo a tempeste in bicchieri d’acqua, a prismi magmatici di incanto e stupore, a satelliti su cui navigare riducendo le distanze siderali tra le circostanze temporali e geografiche in cui, linguisticamente e non solo, ci si trova e i potenziali altri frangenti in cui approdare o da cui ripartire, crescere, continuare.
Si sfiorano, si spalancano, si buttano giù porte e porticine, portoni e portonacci, prendendo colpi e trovando muri; saltando da un ramo all’altro come Cosimo Piovasco di Rondò, inciampando, insistendo, un respiro dietro l’altro, una siepe e una strada, una barriera e un girasole; man mano realizzando che le diverse ramificazioni, le escoriazioni e le cicatrici, le immersioni e gli slarghi compongono un unico mosaico che tiene in sé mille tessere, mille colori, mille ombre sullo sfondo, musica che parla da dentro, che definisce e nutre.
In “Ciascuno incatenato alla sua ora”, Mariella Mehr, autrice scampata a un progetto di azzeramento dell’etnia, estirpata da terra e origini, trova nello scrivere un porto, un approdo, un’unità:

Stiamo separati di fronte al mondo,
ognuno incatenato alla sua ora,
i nostri cani vanno a toccare un ieri,
quante volte e senza conseguenze?

Nebbia avvolge quel laggiù privo di sponde
nebbia si appoggia sulla mia spalla,
diventa pesante, più pesante, diventa pietra.

C’è una sola parola captata origliando
che voglio cavare fuori e conservare,
perché resti indietro una ferita aperta,
a mia consolazione, una via nel domani.

Bastava la speranza? Allora sperate con me,
tutti voi soccombenti.
Spera anche tu,
mio cuore,
un’ultima volta.

27.01.05

(Mariella Mehr, Ciascuno incatenato alla sua ora, Einaudi 2014; trad. Anna Ruchat)

Una via nel domani” (M.M.).

Il sogno di un neonato custodito da un bianco cane gentile.
Un vezzeggiativo in dialetto.
I lembi di due mondi, quello presente e quello passato, finalmente accostati.

Sei, sono, siamo la(e) lingua(e) che parliamo: a cominciare da quella che ci parla da dentro, nei sogni e nei lapsus, nei retrobottega della coscienza e nei momenti in cui niente è sorvegliato.
Siamo le lingue in cui ci innestiamo, i cui ritmi creano contrade e radure in cui scoprirsi interi, per un momento privi di peso e tempo, completi. E siamo i silenzi e le prosodie, la gestualità e l’incoerenza, l’inesattezza e il conforto, la trafittura e la coperta che ci avvolge fin da prima di essere al mondo, il battito cardiaco della madre, la risata del padre, l’odore della terra scavata dal sole e dall’acqua.
Da lì si arriva, si parte, ci si distacca e infine è ancora lì che si torna, perché “viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte” (C. Magris).

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