Il viaggio: da Abramo a Celan ( e ritorno)

 

Domani in ogni sinagoga del mondo si leggerà la Parashà di Lech Lechà (לֶךְ-לְךָ), la centrale pericope della Torah che tradizionalmente si pone alla base del viaggio di Abramo alla scoperta fondativa del monoteismo.

“Va’ via (lech lechà) dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre (dei tuoi avi), verso la terra che io ti mostrerò.”

Nella tradizione mistica ebraica, questo versetto, descrittivo della necessità dell'abbandono per la crescita spirituale, è però anche letto come un invito ontologico: 
“vai verso te stesso”. 

Il doppio termine lech (vai) e lecha (a te, per te) è, infatti, interpretato nello Zohar come un movimento interiore: “per il tuo scopo, per la tua essenza, per il tuo segreto” (Zohar I, 77b). 
E in realtà la locuzione può essere letta in ebraico sia come Vai via/vattene che come Vai verso te stesso/all'incontro di te stesso.
E questo, evidentemente, perchè il viaggio di Abramo non ha solo le caratteristiche della esteriorità (la scoperta di una  nuova terra prima del viaggio sconosciuta) ma, per contrappeso, è un ritorno alla radice, alla scintilla divina che lo abita, quindi alle terre (intese qui come luogo di fertilità e crescita interiore) già conosciute e forse dimenticate dall'Uomo

È un movimento circolare quello di Avram (Abramo), che a  seguito di questo viaggio assume nuovo nome (Avraham), cosa che è segno sempre di un mutamento irreversibile, per la tradizione non solo ebraica: di un uscire per ritrovarsi, perdere per ricevere un nome nuovo.
Da notare che il nuovo nome si differenzia dal precedente per una sola lettera, madre di mistiche infinite, e contiene in sé il vecchio.
Questo non può non essere rimarcato perchè l'onere della memoria delle radici, del percorso svolto è sempre centrale: si è nuovi, certo, ma mai dimentichi di ciò che si è stati.

Rabbi Nachman di Breslov, una delle più brillanti menti dell'intera storia ebraica, definisce Lech-Lecha  come il paradigma del risveglio spirituale: “L’intero mondo è un ponte stretto, e l’essenziale è non avere paura” (Likutey Moharan I:48). 
Intendiamoci, non si deve aver paura tale da impedire il viaggio il movimento ma un certo timore e consapevolezza dei perigli che questo ponte stretto rappresenta, una sorta di rispetto, in altre parole, del senso profondo del viaggio va sempre mantenuto.

Il ponte poi rappresenta la soglia tra ciò che si conosce e ciò che si è chiamati a diventare, ed è per questo che la memoria è sempre centrale. 

Rav Moshe Hayyim Luzzatto, nel Mesillat Yesharim, descrive la vita come un cammino verso la luce della Shekhinah (estrinsecazione del femminile divino nel creato): “L’uomo è stato creato solo per godere della luce della Presenza Divina”.
Rav Jonathan Sacks scrive: “Abramo non sa dove va, ma sa chi lo chiama. La fede è camminare senza mappa, ma con una voce” (Covenant & Conversation: Genesis, Maggid Books, 2009).

A proposito del cambio dle nome poi è da notare che Avram (“padre elevato”) diventa Avraham (“padre di moltitudini”) solo dopo il viaggio. Il nome nuovo è il frutto della trasformazione. Il viaggio non è solo geografico, ma etico, ontologico, simbolico.
Ma quello di Abramo non è certo l'unico nella storia del pensiero e della letteratura ad assurgere a rango di archetipo della trasformazione operata dal movimento verso lo sconosciuto. 

Dante Alighieri ad esempio, nella Divina Commedia, mette in scena un viaggio escatologico e interiore e, come Abramo, è chiamato a lasciare il mondo noto per affrontare prove e rivelazioni:
“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.”
(Inferno, I, 1–3)

La selva è la confusione dell’identità. Virgilio è guida e mediazione, così come la Voce lo è per Abramo. 
Il viaggio non è solo verso Dio, ma verso un nome nuovo  (Dante, come Abramo, riceve una visione che lo trasforma) ma del quale non si nascondono, come in una profezia, i perigli e gli inciampi:

“Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.”
(Paradiso, XVII, 58–60)

Il cammino per Dante è dunque anche esilio, ma possiamo supporre che l’esilio sia anche la condizione della rivelazione, e non solo fonte di dolore.

Altro poeta che declina il viaggio in termini in parte simili e in parte differenti da Dante e dal Biblista è sicuramente Giorgio Caproni, che ne Il passaggio d’Enea o ne Il muro della terra, pare rilegge il mito dell’eroe come figura del migrante spirituale:

“Io non so dove vado,
dove vado non so
e non so cosa cerco
e cerco ciò che non so.”

Come Abramo, Caproni parte senza sapere dove andrà. Il suo cammino è invocazione, non possesso, in cui il Silenzio ha sempre un ruolo centrale.
Il suo è un silenzio (tanto ricorda il ritiro della Shekhinah) in cui la voce che si fa soglia. Caproni cammina verso una terra che è promessa e assenza e questo non può non collegarci ad altro immenso poeta.

Paul Celan, sopravvissuto alla Shoah, fa della poesia un atto di sopravvivenza. La sua lingua è spezzata, scavata, ma ancora capace di dire, o forse capace di dire perchè spezzata.
Il suo viaggio è quello del superstite che cerca un senso tra le macerie. Come Abramo, tuttavia, Celan parte da una frattura, da un abbandono. 

(...)
“Là, nel mezzo,
nel cuore,
sta un albero —
l’albero ferito.”
(...)

(Engführung, 1958; in Poesie, trad. di Michele Ranchetti, Mondadori)

Non può con Celan non saltare all'occhio il legame tra la metafora dell'albero ferito e la Torah ferita, la cui voce resiste nelle ceneri dei campi.
È una voce più dimessa, certo, celata, non potente come quella che sente Abramo: una sorta di doloroso sussurro che impone, un'altra volta, l'onere e l'onore della memoria.

Anche Edmond Jabès, nei Libri del deserto, costruisce un’intera opera attorno al tema dell’esilio, del viaggio e del nome:

“Il libro è il luogo dove l’esilio si fa patria.”
(Il libro delle interrogazioni, trad. di Maria Teresa Giaveri, Adelphi, 1984)

Come Abramo, Jabès lascia la lingua madre per entrare nel deserto della parola  o, meglio, nei deserti della parola.

“Scrivere è andare verso ciò che si ignora, verso ciò che ci ignora.”
(ibid.)

Il deserto, lo ricordiamo, potrebbe essere ancora una volta legato alla Shekhinah ritirata, il bianco che accoglie la domanda, l'assenza temporanea di risposta. 
Jabès è dunque un pellegrino dalle qualità diverse dai precedenti: egli cerca il nome perduto, e non si adatta a riceverne semplicemente uno nuovo, come Abramo.
E questo per Jabès la novità è legata alla memoria/interrogazione del passato.
Il segno dell’alleanza in Jabès è un taglio: una circoncisione. 
È un taglio che diventa memoria, un’incisione che trasforma il corpo in testo. Jabès scrive:

“Ogni parola è una ferita che cerca di guarire.”
(ibid.)

Celan, Jabès, Caproni, Dante: tutti scrivono nella e dalla ferita, e come Abramo incidono la alleanza col trascendente nel corpo.

Quello del Lech-Lechà è dunque un versetto che unisce mistica e poesia, Torah e esilio, voce e silenzio. 

È il primo passo del pellegrino dell’anima, che lascia ciò che è noto per entrare nel mistero del Nome.

Abramo cammina verso una terra che non conosce.
Dante attraversa l’aldilà per ritrovare la via.
Caproni cerca Dio nel passo.
Celan scrive nella e dalla ferita.
Jabès abita il bianco,
ma tutti rispondono alla stessa voce che dice loro:
"Lech-Lechà” — Vai verso te stesso".

Per la Redazione de Le parole di Fedro
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