(Redazione) - Fisiologia dei significati in poesia - 15 - Il poeta e la sua parola (parte prima)

 
di Giansalvo Pio Fortunato  

Il poeta è poeta solo in virtù della sua parola: un’espressione d’apertura, questa, che lascia alquanto sconcerti sia deontologicamente parlando, sia generalmente parlando.
Eppure, dalla durezza di questa espressione ne nasce il mondo scivoloso che deriva dall’essere in poesia e da un’analitica senza compromessi sulla e per la poesia. In fondo, la parola poetica (il supposto Verbum nelle affermazioni più ritualistiche ed assolutiste del fare poesia) rende il mistico il corpo limitato della parola e lo fa di un misticismo assolutamente de-miracolato, assolutamente affrontabile in ogni ragionevole dubbio. Quando si affronta un miracolo, infatti, per chi crede l’assegnazione di un causalismo di fede, che per i non credenti è esercizio di superstizione, rende estremamente appagata la ricerca di una motivazione o, quantomeno, di un’analitica pervasiva. In fondo, ciò che dovrebbe essere posto come oggetto d’indagine diventa mezzo che ratifica e certifica altro. In breve, il miracolo non è surrogato dalla sfera del sacro; surroga, piuttosto, la sfera del sacro, esplicitando che questa sia sfera altra, sia dimensione rispetto alla quale si scorge sempre, anche epistemicamente, una velatura che faccia del dubbio la sua forza.
In poesia, invece, questa supposta velatura (questa a-letheia mediocre, non certamente ermeneutica) non solo è estremamente arrendevole, ma chiarifica un certo atteggiamento di preclusione che non aiuta né il poeta, né la comunità poetica tutta. Essere rigorosi, analizzando la poesia, significa esaudire più obiettivi e porre a problema tante e tante dimensioni che, in una poeticità ingenua, sfuggono o si lasciano sopravanzare. Essere rigorosi significa, anzitutto, venire a patti con l’insoddisfazione nei confronti della propria esperienza poetica, perché continuamente compresa come manovrabile, come malleabile, come migliorabile, come esaudibile in forme di espressività differente, di dimensioni di senso e significato alternativo. Essere rigorosi significa anche esaudire finalmente quella relazione continuativa ed ancestrale tra postura espressiva ed espressione, ritenendo che il confine tra intellettualismo e puro sentire periferico si inter-implicano vicendevolmente, al fine di arrivare ad una dimensione più incerta; ma anche più esaudita. Quando precisavo, infatti, che il poeta è poeta e vive da poeta il mondo, non facevo certamente riferimento ad un monito quasi etico-pratico: non mi aspettavo, per intenderci un apostolato poetico, malgrado questo sia necessario in specifici contesti particolarmente facinorosi ed arrivisti.
Pensavo, molto più sommessamente, alla capacità del poeta di guardare il mondo/al mondo in virtù di un’architettura di senso che si articoli oltre la codificazione ordinaria, oltre l’adempimento di un dovere di lingua estremamente calmierato, che fa semplicemente istituire una corrispondenza tra un ordine prestabilito, che è quello del mondo rappresentato in parola, e quello del mondo finito dato dalla sommatoria di esperienze sovrapponibili. Qualcuno, molto più centrato di me (meno dislocato in questa lotta per fornire un supporto analitico alla poesia), direbbe che ci si trova dinanzi ad un’adequatio rei: nella forma, dunque, più comunemente attesa di supposta relazione tra un mondo declinato e definito ed un mondo limitato nella sua permanenza immanente. È questo, in fondo, il presupposto ontologico che caratterizza ordinariamente la lingua.
Ad un mondo sostanzialmente cristallizzato, tanto negli enti, tanto nelle totalità rappresentative, risponde una codificazione nominale, che guarda alle cose con un volto unico, solo ed indiscutibile. Al punto che, anche nelle prime prospettive offerte entro questa rubrica, ho adottato un’operatività più o meno di calibro simile, guardando alla lingua nella sua totalità, nella limpidezza problematica di un assoluto di significato, inteso come rielaborazione mentale di un oggetto univocamente tale (anti-percettivo ed inevitabilmente posto in un orizzonte definito). Ad un’attenta riflessione, dunque, emerge quanto possa essere incompleta una nominazione di simili caratteristiche per la poesia. Emerge, soprattutto, come, alla luce di un’adeguata analisi poetica, la capacità creativa oltre l’ordinarietà della lingua divenga qualcosa di assolutamente miracoloso. In che senso?
Nel senso che, ammettendo che il poeta si muova all’interno della lingua e di una lingua così semplicemente ed ingenuamente delineata, solo un miracolo può garantire che la poesia attui una ri-nominazione della cose, un’associazione selvaggia e, talvolta inspiegabile, di blocchi di senso alternativi e non facilmente riscontrabili nell’esperienza comune che si fa della lingua. Ci si introduce, per intenderci, in un differenziamento troppo astruso e divaricante tra il parlante ordinario ed il poeta, facendo diventare il poeta o il mentitore di turno o il sacerdote di turno. Se, invece, ci si pone in una riconsiderazione complessiva tanto della lingua, quanto del linguaggio e, dunque, della parola, non solo l’espressione poetica emerge realmente come espressione (anche e soprattutto posturale). Ma, a questa espressione, ci si avvicina con la rettitudine e la calma di uno straniero che cerca casa; che cerca la sua stessa casa.
Per offrire una contestualizzazione che ci riconduca al succo di una parola nella esperienza essenziale che se ne fa (quindi: nel succo dell’azione poetica), chiedo mi si segua in questi brevi passaggi esplorativi.
Tenuto conto, anzitutto, della convenzionalità che caratterizza ciascuna lingua e, dunque, della natura intrinseca di un codice (nel dettaglio: il codice linguistico), va precisato che la possibilità di manovra di ciascun essere parlante è limitatamente assai ampia. Definizione, questa, che, molto sinteticamente, affronta l’esperienza che ciascun essere parlante fa della sua stessa lingua. Ciascuna espressione linguistica o, meglio ancora, ciascuna enunciazione passa continuamente per il limite di espressioni segnate dalla lingua di appartenenza. Il tal senso, il codice non funge da deterrente legislativo (per intenderci: dire qualcosa correttamente o dire qualcosa non correttamente). Il codice, piuttosto, rappresenta lo stimolo pedagogico che segna l’orizzonte entro il quale si può istituire e si può comporre un’espressione tanto rigorosamente ricorsiva, tanto assolutamente innovata nella sua materialità e nella sua strutturazione di senso.
Ma, soprattutto, il codice è ciò che evidenzia il linguaggio, la lingua; ma soprattutto: la parola. Il tutto per differenza!
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