(Redazione) - Voci dall'Umanesimo-Rinascimento - 08 - Il "De priscorum proprietate verborum" di Giuniano Maio: un caso controverso.
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Di Gianni Antonio Palumbo |
Un ambito interessante, sebbene possa apparire arido (e a tratti lo sia anche), della produzione umanistica è rappresentato dalla lessicografia. L’attenzione ai classici determinava la volontà di raggiungere il pieno possesso delle lingue antiche, in particolar modo del latino.
In tale prospettiva vanno letti gli Elegantiarum latinae linguae libri sex (I sei libri delle eleganze della lingua latina) di Lorenzo Valla, pubblicati postumi nel 1471 ma già circolanti negli anni Quaranta, o ancora il De Orthographia di Giovanni Tortelli, ch’era stato bibliotecario della Biblioteca Vaticana. Pubblicato postumo anch’esso sempre nel 1471, nasceva come un lessico dedicato alla corretta grafia delle parole di origine greca innestate nella lingua latina, ma finiva con l’essere ben più di questo; suggeriamo, per approfondimenti sull’opera, il volume di Gemma Donati, L’Orthographia di Giovanni Tortelli, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, 2006. A fungere da guida erano la ricerca dell’eleganza verbale, della proprietà terminologica, ma anche l’intento di un generale recupero della cultura classica, avvertita come qualcosa di pienamente vitale.
Nel
contesto di questi studi si inserisce il De
priscorum proprietate verborum di
Giuniano Maio, cavaliere partenopeo, docente presso lo Studium di
Napoli. Il lessico fu pubblicato nel 1475 dallo stampatore noto come
Mattia Moravo. Riscosse una certa fortuna, dal momento che conobbe
ben cinque successive edizioni, due trevigiane, nel 1477 e nel 1480,
e tre veneziane (1482, 1485, 1490). La dedica del lessico a Ferrante
d’Aragona evidenziava la volontà di Maio di offrire un utile
sostegno agli studi grammaticali, ricongiungendo un sapere variamente
sparso in singole opere, con attenzione a Servio, Donato, Prisciano,
Macrobio, Nonio, Gellio e – solo greco – a Strabone e ad altri
ancora, tra cui menzionava proprio Valla, Tortelli e Pontano, figura
di punta dell’Umanesimo aragonese cui Maio, che fu anche maestro di
Sannazaro, era riconducibile. L’esame attento della biblioteca
sciorinata dal Nostro nella dedica rivela, in primo luogo, che tutti
i nomi da lui addotti figuravano – ed erano dunque avvallati,
sebbene con qualche puntualizzazione – tra quelli non sgraditi a
Lorenzo Valla, l’ombra del quale sembra dunque proiettarsi, seppure
in prospettiva non acritica, sulle scelte di Maio.
L’organizzazione
dell’opera vede il susseguirsi di una serie di lemmi, di cui
Giuniano registra il significato ma anche le grafie esistenti, senza
prendere posizione in merito alla maggior correttezza di una rispetto
all’altra; anche significati contrastanti sono registrati senza
l’esplicitazione di opzioni preferenziali. Ogni voce è corredata
dall’indicazione della sua provenienza. Apparentemente, il
grammatico squaderna, dunque, le fonti del proprio lavoro (abbiamo
approfondito tali questioni nel nostro La
biblioteca di un grammatico,
Bari, Cacucci, 2012). Già qui, però, c’è da fare una
precisazione. Giuniano non leggeva, per esempio, Strabone
direttamente in greco; è facile verificare che i lemmi di carattere
geografico recanti il marchio di fabbrica di “Strabo” in realtà
erano tratti dalla traduzione latina di Guarino Veronese e Gregorio
Tifernate. Questa presenza di mediazioni vale ancora per numerosi
altri esempi; gli estratti di carattere giuridico, per menzionare un
caso, non derivano direttamente dal Digesto,
ma piuttosto dal vocabolario che ne aveva tratto l’umanista Maffeo
Vegio. Insomma, esiste una biblioteca, che potremmo definire
“mediana”, la quale sfugge a una immediata catalogazione perché
Giuniano non la dichiara, cosa che peraltro non era rara nella
prospettiva umanistico-rinascimentale. Giovan Battista della Porta,
per esempio, se nella Villa,
la sua enciclopedia rustica,
riporta
un’affermazione di Teofrasto, non sta citando Teofrasto
direttamente, ma si riferisce alla traduzione che ne aveva fatto
Teodoro Gaza. A essere precisi, della Porta citava Gaza solo quando
desiderava prendere le distanze dalle scelte della sua versione
latina. Per comprendere questo atteggiamento non dobbiamo in fondo
guardare lontano: quanti oggi, se citano in lingua italiana versi di
John Keats (o di qualunque altro scrittore straniero), li
accompagnano con la menzione del traduttore? Nella forma
mentis di
Maio sostanzialmente il traduttore equivaleva a mediatore di
conoscenza, ma l’unico degno di essere ricordato, nella sua
prospettiva e in quella di molti suoi contemporanei, era l’autore a
cui si faceva riferimento. Del resto, dare a intendere una conoscenza
diretta dei testi – i tempi non sono cambiati – appare
generalmente più scientifico rispetto al dichiarare la presenza di
una mediazione.
È
poi opportuno intendersi anche sull’intenzione del volume; Giuniano
non si poneva esclusivamente il fine di fornire delle nozioni
grammaticali ai suoi allievi dello Studium,
ma, come a piena ragione rilevò Carlo Vecce, ha ambizioni, diremmo
oggi, da Realencyclopädie.
Vuole assurgere a monumentale raccolta del sapere legato al mondo
antico, muovendo, sì, dal punto di vista delle parole, ma per
giungere alle cose. Quando Giuniano scrive, in un estratto da Nonio,
che l’“Ancile” è “scutum grande, unde etiam arma et ‘ancile’
nunc appellantur; Virgilius in V: ‘Levaque ancile gerebat’.
Nonius”, non è una vuota parola che lo studioso desidera
richiamare compresente; Maio vuole restituire un’immagine. E, se ci
dice che “Anchises vel ‘sa’ latine, Capis filius, pater Aeneae:
patronymicum Anchisiades”, più che la corretta grafia del nome del
padre di Enea, è pensabile che sia, per usare termini di dibattiti
più vicini a noi cronologicamente, una “memoria culturale”
quella che sta cercando di tramandare.
Nel
Cinquecento, un erudito, Raffaele Maffei detto il Volterrano pubblicò
i Commentariorum
urbanorum octo et triginta libri,
parlando di uomini illustri, citava un grammatico sessano, di nome
Antonio Calcillo, non inesperto nel suo campo ma sostanzialmente
privo di quel guizzo che connota la genialità. Ci dice che Calcillo
aveva allestito un Lessico e che obitu
ipsius superveniente,
al sopraggiungere della sua morte, il suo allievo Iovinianus
sibi vindicavit l’opera
dello studioso sessano. Questa accusa ha dato il via a una costante
deminutio
del
lavoro di Maio, e a una taccia di plagio che è stata discussa, nel
secolo scorso, con argomentazioni differenti da Simona Gavinelli,
Aniello Gentile e Roberto Ricciardi, che per primo inquadrò la
questione in una prospettiva più pacata. Innanzitutto nella
narrazione del Volterrano ci sono delle imprecisioni, che hanno
contribuito ad alimentare una prospettiva da giallo erudito, con
tanto di scenario di morti improvvise e appropriazioni indebite di
testi.
Nel
1475, quando l’opera di Maio fu data alle stampe, Calcillo era
tutt’altro che deceduto, tanto che prese in affitto una casa da
tale Giovannella Caracciolo. Già una prima informazione del
Volterrano, dunque, sembrerebbe cadere. Il lessico di Calcillo non fu
trafugato e fatto sparire; sopravvisse inedito nella biblioteca
aragonese e di fatto ne abbiamo copia. Si tratta del Lexicon
Latinum
di Calcillo, che ci è stato trasmesso dal manoscritto Bodleiano 171
(sec. XV, cart. di 389 ff) di Oxford. Iovinianus,
poi, non era un discepolo infingardo del sessano, ma era un suo
collega nello Studium
di
Napoli. Nella dedica, peraltro, Maio scriveva “Extabat
tamen opus inchoatum de verborum latinorum interpretatione, cui cum
multa adimi multaque addi posse viderentur, alios
adhuc quosdam non
parvo
meo labore neque mediocri studio partim integros inserendos
partim,
ne nimium opus incresceret, in compendium redactus
adiunxi”
(Era disponibile un’opera abbozzata de
verborum latinorum interpretatione,
in cui, poiché mi sembrava vi fossero da aggiungere ed eliminare
molte cose, introdussi, con non poca mia fatica e non irrilevante
studio, ulteriori materiali in parte da inserire integralmente e in
parte compendiati).
Giuniano asseriva, dunque, di essersi avvalso di un opus
inchoatum
come base per il suo lavoro; certo, poco elegantemente non ne citava
l’autore e, inoltre, la stessa idea di lavoro solo “abbozzato”
finiva col ridurne ingenerosamente la portata.
è
vero, come è emerso dalla nostra collazione della lettera A dei due
lessici, che il lessico conservato presso la Bodleian Library di
Oxford funse da ipotesto per il De
priscorum proprietate verborum.
È altresì vero, però, che le voci di Calcillo furono generalmente
emendate e sfrondate del superfluo; che in alcuni casi, si pensi a
Nonio, furono presumibilmente collazionate con edizioni a stampa
disponibili all’epoca. Furono poi innestati numerosi materiali che
nel lessico di Oxford non c’erano: Pontano, estratti valliani
aggiuntivi, voci dal De
montibus di
Boccaccio, i lemmi dal De
orthographia di
Tortelli. Questi ultimi, per esempio, risultano centinaia nella sola
lettera A e non erano presenti già nel vocabolario di Calcillo.
Dovremmo, dunque, parlare di plagio plurimo o sarebbe forse
preferibile non esaminare una tipologia di opere quali i lessici alla
luce di categorie che ad esse non si addicono.
Se,
dunque, il De
priscorum proprietate verborum non
fu – almeno così riteniamo – un plagio del Lexicon
Latinum,
resta da esaminare la sua curiosa storia. Nel 1490, vien fuori una
nuova edizione, l’ultima, per i tipi di Giovanni Rosso da Vercelli.
Basta scorrere la prima voce per accorgersi che nell’opera ci sono
delle differenze rispetto alle stampe precedenti. L’ultima edizione
sembra tramandarne una nuova redazione. Il confronto fa emergere la
presenza di numerosi nuovi lemmi. Resta da chiedersi se Giuniano
Maio, che a quell’altezza cronologica era ancora vivo, sia tornato
sul suo lessico per innestarvi nuovi estratti e quindi aggiornarlo.
La questione è controversa e offre spunto anch’essa per un piccolo
giallo erudito. Si tratta, però, di un’altra storia, cui
dedicheremo una nuova puntata della nostra rubrica, in seguito…
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