II. Sulla conoscenza metrica basilare… compatibile (o quasi) con i pomeriggi al mare.
Sì, lo so, l’estate non è certo la stagione migliore per affrontare argomenti “metricamente scottanti”, tanto più che la calura agostana sembra piuttosto invitare al ritmo facile e lesto della sempreverde macarena. Eppure, la cadenza bimensile di Metricamente mi sorprende, di fatto, nel pieno delle ferie con tanto di panama di paglia e occhiali da sole, determinata - nonostante tutto - a intraprendere fughe “prontuarie” che - si spera - risultino chiare, rapide e leggere. Così - rimandando a contesti ben più freschi le incursioni tra sonetti, ballate, canzoni e le occasionali parentesi sui sistemi quantitativi greco/latini - affronteremo oggi alcune questioni metriche basilari, partendo da ciò che è così semplice da poter essere dato quasi per scontato, se non fossimo nell’ambito di un prontuario - appunto - e col ventilatore acceso che sventola a picco sul capo.
Abbiamo
detto, a suo tempo, ma lo ribadiamo che tecnicamente il metro poggia
su alcuni fattori linguistici presenti con maggiore o minore rilievo
in tutte le lingue, siano esse antiche o moderne. Questi elementi -
che in base alla loro combinazione determinano l’unità minima di
misura o ‘piede’ - sono: la sillaba,
la quantità,
l’accento
e il tono.
La
sillaba
è un’emissione univoca di suono determinata da un apice fonico
forte, che generalmente - anche se non necessariamente - è una
vocale, come succede ad esempio nella lingua italiana. Detto questo,
chiariamo subito che si considerano chiuse
tutte le sillabe che terminano in consonante (ad esempio:
con-so-nan-te),
mentre si considerano aperte le sillabe che terminano in vocale (ad
esempio: vo-ca-le).
La
quantità,
invece, è la durata fonemica o estensione temporale di una sillaba e
può essere di due specie: oggettiva,
e quindi propria di tutte le lingue, quando il parlante per
pronunciare un dato suono deve impiegare maggiormente gli organi
fonatori (come, ad esempio, avviene nelle sillabe chiuse);
soggettiva,
e questo avviene solo in alcune lingue come il latino, quando il
parlante usa la durata con funzione distintiva (ad esempio,
allungando o meno una vocale). Ne deriva che una sillaba
chiusa
sarà sempre lunga,
mentre la lunghezza di una sillaba aperta dipende dalla lunghezza
della vocale contenuta in essa: sarà breve se contiene una vocale
breve, sarà lunga se contiene una vocale lunga o un dittongo o un
trittongo.
L’accento
e il tono
sono due elementi che possono essere esaminati su uno stesso piano:
l’accento cosiddetto di intensità è un aumento di energia sonora
su una sillaba data, fenomeno grazie al quale è possibile
distinguere le sillabe toniche
da quelle atone.
Esistono lingue con accentazione fissa (come il francese che accenta
sull’ultima sillaba o il polacco che accenta sulla penultima) ma
altre hanno un accento mobile o a sede libera (come succede per
l’italiano o per lo spagnolo). Il tono,
invece, è un accento musicale o di intonazione che consiste
nell’aumento delle vibrazioni delle corde vocali. In alcune lingue,
soprattutto africane o orientali, la melodia - ossia il tono con cui
viene pronunciata una parola - assume spesso una funzione distintiva.
Sulla
base di questi quattro elementi è possibile individuare almeno
quattro
tipi di metro
corrispondenti: sillabico,
quantitativo,
accentuale
e tonematico.
Tuttavia, bisogna anche dire che, in qualsiasi sistema linguistico,
il verso non si fonda mai su uno solo di questi principi ma ne
contiene sempre almeno più di uno. Il verso italiano, ad esempio, li
contiene tutti e quattro ma privilegia come tratti distintivi la
sillaba
e l’accento.
Il sistema metrico greco e latino privilegiava, invece, la quantità
ma è molto probabile - seppur non più dimostrabile - che riservasse
grande attenzione anche al tono.
Ma
attenendoci, al momento, all’italiano e facendo riferimento alla
sua metrica di natura sillabica e accentuativa, possiamo affermare
che tradizionalmente l’estensione di un verso si fa dipendere dalla
quantità di sillabe presenti nello stesso. Con una procedura
abbastanza semplice si fa corrispondere il numero di sillabe attese
(ad esempio undici nel caso di un endecasillabo; dieci nel caso di un
decasillabo; sette nel caso di un settenario e così via)
all’individuazione della qualità accentuativa dell’ultima
parola, sia essa sdrucciola, tronca o piana. La misura di ogni verso
si mantiene perfetta solo se lo chiude una parola piana; mentre in
presenza di una tronca in clausola il nostro verso avrà una sillaba
in meno; infine, se concludiamo con una sdrucciola, ci sarà una
sillaba in più da non computare. Quindi, tanto per ricapitolare, un
endecasillabo
piano
avrà regolarmente undici sillabe, un decasillabo
piano
ne avrà dieci, un
settenario piano
ne avrà sette. Invece, un endecasillabo
sdrucciolo
avrà dodici sillabe, un decasillabo
sdrucciolo
ne avrà undici, un settenario
sdrucciolo
otto. Infine, un endecasillabo
tronco
avrà dieci sillabe, un decasillabo
tronco
nove, un settenario
tronco
sei.
E
per fugare ogni potenziale dubbio, ricordiamo anche che si dicono
piane
(o barìtone o parossìtone) tutte
le parole accentate sulla penultima sillaba (come lùna, piàtto,
gàtto, assètto, perfètto); mentre si dicono tronche
(o
ossìtone)
tutte quelle accentate sull’ultima sillaba e che - a parte i
monosillabi (me, te, lo, etc.) o le parole apocopate (po’, fra,
buon, etc.) - troverete sempre graficamente segnate (si pensi alle
città, ai mustafà, all’aldilà, ai caffè, ai lacchè e pure ai
madamadorè); infine, saranno sdrucciole
(o
proparossìtone)
le parole accentate sulla terzultima sillaba (come tàvolo, àlbero,
màndorlo, archètipo e così via). In italiano poi, a differenza
delle lingue classiche, esistono pure parole bisdrucciole o
trisdrucciole, ma di norma le ritroverete di rado alla fine di un
verso e… avete presenti le sdrucciole? verranno trattate allo
stesso modo.
Ma,
sempre a proposito di sillabe, giova pure ricordare alcune
combinazioni vocaliche a cui prestare una certa attenzione. Poco
prima dicevamo che non esiste sillaba senza vocale (almeno in
italiano) e che al numero di vocali d’una parola corrisponde pari
quantità di sillabe. Tuttavia, questo computo potrebbe diventare
meno immediato in presenza di un dittongo,
di un trittongo
e di uno iato.
Cos’è un dittongo? Senza dover scomodare elencazioni troppo
mnemoniche, il dittongo è l’insieme di due suoni vocalici che
vengono considerati un solo suono e, in italiano, ciò succede quando
una delle due vocali coincide con “i”
oppure con “u”
non accentati; in tal caso si parla, infatti, di semiconsonanti
(se
precedono la vocale: piàno,
guànto)
o semivocali
(se seguono la vocale: mài,
fèudo).
Quindi, in italiano, sono dittonghi quelli di piàno,
fièro,
pièno,
fièno,
alièno,
contìnuo,
assìduo
e
così via... Se invece, in questo binomio, ad essere accentati sono
“i”
o “u”
- come accade in mìo,
zìo,
tùo,
sùo,
bùe,
tùe
- siamo dinnanzi a uno iato
ossia a due vocali distinte e separate che brillano di suono proprio
e non condiviso. Ovviamente anche tutti gli altri binomi vocalici
dove non compaiono “i” e “u” saranno iato (così accade in
aereo,
in stereo,
in poeta,
in teatro,
etc.). Infine, se a un dittongo si unisce un’altra “i” o “u”
non accentata, saremo di fronte a un trittongo
(così in aiuòla
ma anche in buòi,
suòi,
tuòi,
etc.).
In
tutti questi casi la nostra sillaba comprenderà tutto il gruppo
vocalico considerato (quindi pià-no;
fiè-ro;
piè-no;
a-iuò-la;
buòi;
suòi;
tuòi;
ma sempre zì-o;
pì-o;
mì-o;
etc.).
Infine
- se proprio non volete ricorrere ai computatori in rete -
ricordatevi che, per regola spiccia, fanno sillaba tutti i gruppi
consonantici che possono stare da soli a inizio di parola, quindi sì
alla bri-na,
alla pri-ma,
alla cre-ma,
alla psi-che,
alle spi-ghe,
alle sfighe,
alle gnoc-che,
alle scioc-che
eccetera, eccetera. No agli ec-ze
- mi, agli em-ble-mi
e pure agli en-fi-se-mi.
Le consonanti geminate, possiamo darlo per assodato, si scempiano
sempre, come succede nel/le
bol-le,
nel/le
frol-le,
sul/le
spiag-ge,
nel/le
fac-ce,
tra le brut-te
e le fi-ghet-te.
Chiarito
tutto questo e rinfrescata qualche regola grammaticale di base, siamo
senz’altro a metà dell’opera del computare un verso, che poi sia
nostra intenzione scomporlo o crearlo fa lo stesso. Come dicevamo
all’inizio, si ritiene che un verso possieda tanti piedi o misure
quanti sono i gruppi contenenti l’elemento ripetuto; inoltre,
tradizionalmente, il verso italiano è basato sulla sillaba
(o meglio su una successione
di sillabe)
e sull’accento
(di regola - seppur non di fatto - vincolato a posizioni prefissate).
Abbiamo elencato i vari distinguo relativi alle sillabe, ma essi non
esauriscono il panorama, in quanto la successione sillabica può
risultare viziata anche dalla presenza d’una (o più d’una)
figura metrica. Ad esempio, se noi consideriamo il seguente verso di
Petrarca (Canz.,
96, 1):
“Io
son de l’aspectar omai sí vinto”
risulta
chiaro che il nostro computo è di undici sillabe esatte (con accenti
sulla 2 ͣ, 6 ͣ, 8 ͣ e 10 ͣ sillaba).
Ma
se, sempre di Petrarca, consideriamo quest’altro verso (Canz.,
163, 1):
“Amor,
che vedi
ogni
pensero
aperto”
se
noi non operassimo i legamenti vocalici evidenziati, il computo delle
sillabe risulterebbe di tredici.
Perciò
le figure metriche incidono profondamente sul computo del verso. Le
più importanti, che probabilmente già conoscerete, sono: la
sinalefe
e la sineresi
(con prefisso sin-
proveniente dal greco σύν=con, assieme); la dialefe
e la dieresi
(con prefisso dal greco διά=separazione); la sinafia
e l’episinalefe.
La
sinalefe
è una figura metrica che prevede la pronuncia contratta di due (ma
anche tre) vocali contigue in
un’unica posizione metrica,
ma senza che una delle due vocali, tutt’al più indebolita, si
perda o venga assorbita dall’altra. Quindi, nel seguente e
celeberrimo verso di Dante (Inf.,
v. 2):
“mi
ritrovai per una selva
oscura”:
a/o
costituiranno un’unica posizione metrica.
Così
pure nel seguente verso di Leopardi (La
sera del dí di festa,
v. 2):
“e
queta sovra
i
tetti
e in
mezzo
agli
orti”:
a/i;
i/e/i; o/a; i/o costituiranno
singole posizioni metriche.
La
dialefe
è, invece, il fenomeno esattamente inverso; riguarda due vocali che,
pur essendo contigue (finali di una parola e iniziali di un’altra),
restano in iato ossia separate in
due posizioni metriche diverse;
ciò accade, di preferenza, in corrispondenza di punteggiatura o di
parole accentate:
“e
tu che sei costì
anima
viva” (Dante,
Inf.,
III, 88)
o
nel caso in cui si voglia conferire netta evidenza a ciascuna delle
due parole:
“che
fece me
a
me
uscir
di mente” (Dante,
Purg.,
VIII, 15).
Sineresi
e dieresi
sono fenomeni metrici specularmente simili alla sinalefe e dialefe,
la differenza è che si verificano non tra due parole contigue ma
all’interno della stessa parola. La dieresi
(dal greco diaíresis=separazione)
nella metrica classica è la pausa che cade dopo la parola alla fine
di un piede (mentre quando il fenomeno avviene all’interno di un
piede è detto cesura). Nella metrica moderna, invece, è la
divisione
di un dittongo,
cioè di due vocali consecutive interne alla parola, in modo che esse
vengano pronunciate separatamente in due sillabe distinte. Il segno
che contraddistingue la dieresi consiste in due puntini sopra la
prima vocale ma la loro presenza non è obbligatoria, perché ciò
che conta non è tanto il segno quanto il ritmo determinato dalla
misura del verso. Pur essendo sempre possibili delle eccezioni, nella
metrica italiana la dieresi è obbligatoria:
- quando
le due vocali contigue si trovano a
fine verso:
“Ed
el mi disse: «Volgiti! Che fai?»”
(Dante, Inf.,
X, 31);- quando
a,
e,
o
sono seguite da una vocale tonica:
“che
d’un leone
avea faccia e contegno”
(Dante, Inf.,
XVIII, 60).Mentre
è proibita se i dittonghi ie/uo
derivano da e/o
latine (ad es. da pes,
pedis=piede);
quando la i
semiconsonantica
deriva dalla l
latina dei nessi bl,
cl,
fl,
gl,
pl
(glans,
glandis:
ghianda);
quando il dittongo latino au
non si è trasformato in o
(laude
per lode);
quando la i,
seguita da altra vocale, è preceduta da c,
g,
gl
(facieno;
cagion).
La
sineresi,
nella metrica italiana, è la pronuncia
contratta in un’unica sillaba
di due o più vocali consecutive che si trovino nella stessa parola e
che altrove è possibile pronunciare separatamente (ad es. paù-ra
per pa-ù-ra).
Essa di norma non
si attua
fra a,
e,
o
con la vocale successiva accentata (Gale-òtto
fu ‘l libro e chi lo scrisse)
e in fine di verso. Invece si
applica
di regola se le due vocali sono in fine di parola e non toniche
(perciò: im-pè-rio
ma pì-o).
Ma
non è ancora finita, perché anche i poeti più ferrati della
tradizione (si pensi a Pascoli, sempre così preciso nei suoi computi
metrici) possono ricorrere, per far tornare i conti, a
“straripamenti” calcolati. Ad esempio, in questo distico tratto
dalla celeberrima poesia La
mia sera
(vv. 34-35):
“mi
cantano, Dormi! Sussurrano,
Dormi!
Bisbigliano, Dormi!”
Pascoli
applica la figura metrica della sinafia,
sottraendo al v. 34 (di dieci sillabe) la sillaba -no
e donandola al v. 35 (di otto sillabe) in modo da ottenere due
novenari (mi
cantano, Dormi! Sussurra / no, Dormi! Bisbigliano, Dormi!).
E in questo altro distico, tratto dalla poesia La
figlia maggiore
(vv. 7-8):
“pei
bimbi che mamma le andava
a
prendere in cielo
sempre
Pascoli attribuisce la prima sillaba del v. 8 (a)
al verso precedente (pei
bimbi che mamma le andava
a
/ prendere
in cielo)
ottenendo, grazie alla figura dell’episinalefe,
un novenario (in sinalefe) e un quinario (richiesto dallo schema
metrico).
Insomma,
a questo punto, risulta chiaro che il principio secondo il quale il
verso italiano è fondato su una successione di sillabe risulta,
spesso, abbastanza impreciso. Infatti i poeti, quasi di norma,
eludono il computo, ricorrendo a espedienti che possono essere
discrezionali. È per questo motivo che, già diversi anni or sono,
Costanzo Di Girolamoi
proponeva di indicare, come unità minima della versificazione, non
tanto la
sillaba
quanto la posizione
e proponeva, ad esempio, per l’endecasillabo un siffatto schema: #
P1
P2
P3
P4
P5
P6
P7
P8
P9
P10
# (s(s))
in
cui P
sta per posizione, s
per sillaba, #
per limiti del verso, le parentesi
per elemento opzionale. Infatti, a rigor di logica, le sillabe
soprannumerarie non modificano il modello metrico del verso, ma ne
modificano solo l’andamento ritmico e la resa fonica.
Così
avviene anche per l’accento,
l’altro elemento che - dicevamo - si pone alla base del verso
italiano. Premettendo che bisogna sempre distinguere tra accento
metrico o ictus
(corrispondente ad alcune posizioni di maggior rilievo) e accento
grammaticale
(proprio di ogni parola), sembra comunque evidente che i due
elementi, in una lingua ad accento mobile come l’italiano, non
possano che coincidere, se come diceva Cvetan Todorov:“la
versificazione non funziona indipendentemente dalla significazione”ii.
Però è innegabile che abbiano un diverso rilievo, nella misura in
cui un accento grammaticale risulta di norma subordinato alla
prevalenza di un ictus metrico vicino. Se
prendiamo in considerazione l’endecasillabo, il verso più
importante dell'intera poesia lirica italiana, possiamo nella
sostanza dire che esso ha tendenzialmente undici
sillabe (il
nome deriva dal greco éndeka="undici")
e che ha come
ultima sillaba tonica (o
posizione metrica) la
decima.
Nondimeno esso consta di numerose varianti formali, che si realizzano
in base alla posizione delle altre sillabe toniche all’interno del
verso. Tra queste, due sono le più importanti: la prima
si realizza con la quarta
sillaba accentata,
dando vita nella parte iniziale (o emistichio)
dell'endecasillabo a un quinario,
che risulta più breve della parte restante del verso, il quale viene
pertanto detto a
minore. La
seconda si realizza quando è la sesta
sillaba ad
essere tonica, realizzando nella parte iniziale un settenario,
cioè un emistichio più lungo della parte restante del verso, che
quindi è chiamato nel suo complesso a
maiore.
Ne sono esempio illustre i primi due versi della Commedia dantesca
che sono, appunto, un endecasillabo a
maiore e
uno a
minore:
Nel
| mez|zo | del | cam|mìn |
di | nos|tra | vi|ta
mi
| ri|tro|vái |
per | u|na | sel|va os|cú|ra
Tuttavia,
e addirittura nello stesso Dante, può accadere anche il contrario
ossia che un accento grammaticale possa avere un grande rilievo
nonostante un accento metrico vicino. Così, ad esempio, in Purg.,
XX, 21:
“come
fa donna che in parturir sia”
quel
parturìr
(in nona posizione) ruba quasi la scena al sìa
in decima.
Ciò
vuol dire che, a parte il rispetto imprescindibile della decima
posizione tonica, per le altre posizioni esistono solo delle
ricorrenze predilette da un autore (anche qui con delle eccezioni) o
da una corrente letteraria, ma che non esiste un vincolo categorico.
Quindi ciò che vale per Dante, ad esempio, non può essere preso a
modello di ciò che accade in tutta la versificazione italiana della
tradizione, men che meno quando si allarga il campo alla poesia
moderna e contemporanea.
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