(Redazione) - Metricamente (Prontuario di sopravvivenza metrica) - 01 - Questioni metodologiche e dintorni
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A cura di Ester Guglielmino |
- Questioni metodologiche e dintorni.
In
altre parole, la metrica dovrebbe fornirci gli strumenti adatti a
comprendere quale modello sostenga un particolare tipo di verso e
quali elementi concorrano a strutturarlo. Operazione certo non
semplice se teniamo conto che la comunicazione poetica è sempre un
esito complesso, la risultante di individualità specifiche e
irripetibili; dunque ciò che si può realisticamente fare è solo
tentare di definire delle norme generali. Nessuna regola può essere
applicata alla poesia di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutti i
contesti; esistono semmai letture - diacroniche e sincroniche -
esperte che cercano di verificare la ricorrenza di taluni schemi o
che, al contrario, si trovano a registrare la deviazione dagli
stessi. Ne consegue che la metrica - contrariamente a quanto si è
soliti pensare - non può essere intesa come una dottrina rigida,
deve essere semmai uno strumento di studio e comprensione di quanto
possa rientrare nel genere “poesia”.
Siamo
così arrivati a toccare un problema fondamentale ossia cosa ci
permetta di delimitare, rispetto alla prosa, l’ambito della poesia.
La questione è certamente annosa e non sempre di pacifica
risoluzione, specie quando si entra nell’ambito della poesia
contemporanea, nata dalla progressiva disgregazione delle forme
canoniche e riconoscibili della tradizione. Definire i confini tra
poesia con versi liberi, poesia con andamento prosastico o prosa
poetica resta ancora uno dei motivi di dibattito che continua ad
infiammare gli animi poetici o pseudo-tali, sarà che la metrica un
po’ spaventa, sarà che non si ha più il rigore antico del
destreggiarsi tra endecasillabi e settenari o sarà semplicemente che
la poesia e la nostra percezione di essa è cambiata nel tempo, com’è
giusto che sia.
Per
cercare di affrontare in modo equilibrato l’argomento, che pare
preliminare in una rubrica che vuole occuparsi di metrica, dobbiamo
anzitutto chiarire che la lingua e tutto quello che nasce o si
trasforma da essa è entità viva e in continuo mutamento, quindi -
come già detto - non esistono regole date una volta per tutte ma
solo tentativi di sistemazione fatti a posteriori, che non sono mai e
non potrebbero mai essere validi per sempre. Detto questo, possiamo
innanzitutto chiarire che un verso, per poter essere considerato
tale, deve possedere una propria tensione interna che lega in modo
indissolubile percezione estetica e contenuto. Cvetan Todorov
affermava che “la
versificazione non funziona indipendentemente dalla significazione”i
ossia che la specificità della poesia è data, appunto, dalla sua
capacità di unire in una sola risultante espressione e significato.
Quindi a distinguere la poesia dalla prosa sarebbe, come afferma
André Martinet, “il
passaggio dalla lingua denotativa a quella connotativa”ii
ovvero la capacità della parola poetica di variare quanto più
possibile rispetto alla norma, allargando il senso e creando
suggestioni che siano evocative e inattese. Questo vuol dire che a
rendere “poesia” la poesia è la sua capacità di infrangere le
regole della prosa sia disattendendo le aspettative di senso del
lettore, attraverso una combinazione irregolare delle parole, sia
conferendo alle stesse un andamento ritmico. E qui ci addentriamo in
un’altra questione cruciale ossia stabilire quanta importanza debba
avere la musicalità nell’ottenere poesia.
Nell’antica
Grecia, la nascita della poesia viene connessa col
termine διθύραμβος (ditirambo) di origine
sconosciuta, probabilmente pelasgica;
il primo a usarlo è il poeta Archiloco,
che con esso si riferisce a un “canto a Dioniso” eseguito sotto
l'ispirazione del vino da un gruppo di persone dirette da un corifeo
o exarchōn. Si trattava - possiamo immaginare
- di una composizione poetica corale,
dove poesia, musica e danza erano
fuse insieme e tutte e tre indispensabili in ugual misura. Il
ditirambo accompagnava anche i cortei (pompè) di cittadini
mascherati che, in stato d'ebbrezza, inneggiavano a Dioniso,
accompagnati dal suono di flauti e tamburi.
Parallelamente,
in ambiente latino, la prima parola che viene collegata al linguaggio
poetico è carmen
(da cano:
cantare), che poi diventerà sinonimo di componimento poetico. I
carmina
all’origine erano formule di incantesimo atte a propiziare la
fertilità dei campi o a scacciare gli spiriti maligni o a purificare
le abitazioni; poi vennero in qualche modo codificati ed estesi a
vari ambiti, da quello religioso-sacrale a quello commemorativo, a
quello militare. Spesso il loro ritmo era connesso al saturnio, un
verso italico abbastanza misterioso. Erano ispirati dalle Camene
(divinità equivalenti alle Muse greche) e cantati da sacerdoti o
indovini o pater-familias
a seconda della loro finalità. Ad ogni modo la loro caratteristica
precipua restava il ritmo e la cantabilità, che ne favorivano anche
la memorizzazione e pubblica reiterazione.
Col
tempo il rapporto tra parola poetica e ritmo andò affinandosi sempre
di più, affidandosi all’accompagnamento musicale di strumenti a
corde come la cetra o la lira,
di cui erano soliti munirsi i poeti greci antichi: aedi, rapsodi o
lirici veri e propri. Da lira d’altronde nasce il termine “lirica”
che, già a partire dal sesto secolo avanti Cristo, si diversificherà
in due generi diversi ma ugualmente prolifici: la lirica monodica,
che annovera esponenti come Alceo, Saffo, Anacreonte e che si
concentra su tematiche più intime e soggettive, affidandosi alla
sola voce cantante/recitante del poeta e la lirica corale, che
troverà in Pindaro il suo massimo esponente e che, fin da subito,
coinvolge un numero ben più ampio di cantori, facendosi portavoce di
una poesia più scenografica e grandiosa rappresentativa dei valori
portanti della comunità. Tutto questo per dire che la metrica intesa
come misura musicale del verso non è, sin dalle origini del genere,
qualcosa di astratto, appiccicato ai versi, semmai è l’esatto
contrario: l’armonia ritmica è la cifra stessa del fare poesia,
un’unione indissolubile di immagini, parole e suoni, che hanno come
unica intenzione quella di sedurre l’orecchio di chi ascolta.
Osip
Brik afferma che “il
movimento ritmico è anteriore al verso; non è il ritmo che può
essere compreso in base al verso, ma, all’opposto, quest’ultimo
in base al primo”iii.
Come dire che prima nasce la musicalità e poi il tentativo di
capirne la struttura regolativa in base al metro. Il ritmo è la
realtà del verso nel suo nascere e perfezionarsi nella mente e
nell’orecchio del poeta, il metro ne è il modello astratto di
riferimento. Quindi, quando si parla di schema metrico si fa
riferimento alla misura del verso, nel senso della quantità delle
sue posizioni. Il ritmo è, invece, il movimento che quel verso
assume sulla base di tanti elementi: accenti, pause, strutture
sintattiche usate, ma soprattutto in base al suo senso; da ciò
deriva che due schemi metrici uguali possono avere ritmi diversi e
soprattutto che il ritmo non sempre si esaurisce col verso ma può
sconfinare oltre con sillabe soprannumerarie o con parole in
enjambement.
Ciò vuol pure dire che ogni verso ha sempre (e deve avere) una
misura metrica e un ritmo, anche - e forse soprattutto - quando si
tratta di verso libero.
Insomma
a fronte di tante, e spesso sterili, discussioni, possiamo dire che
la poesia non può rinunciare all’uso magico della parola, alle
suggestioni di senso, allo scardinamento dei significati consueti e
non può non affidare tutto questo al montare di un ritmo che prende
corpo e si evolve assieme al contenuto.
È
probabile che questa fosse la formula vincente anche della poesia
antica, pur essendo essa basata su un sistema metrico molto diverso
dal nostro. La metrica classica ossia greca e latina, legittima
antenata della nostra, nasce come “metrica quantitativa” cioè
basata sull’alternanza di sillabe di breve o lunga durata,
un’alternanza a cui i parlanti greci e latini davano una grande
importanza, tanto da riservare alla lunghezza delle sillabe un valore
di distinzione netta delle parole. Semplificando, per greci e latini
è breve una sillaba aperta (che finisce in vocale) con vocale breve;
mentre si considerano lunghe le sillabe aperte con vocale lunga o
dittongo o le sillabe chiuse (che finiscono in consonante). Nel
passaggio alle lingue romanze, e nella fattispecie all’italiano,
tale distinzione quantitativa venne soppiantata da un altro criterio:
quello accentuativo, in base al quale i parlanti non hanno coscienza
della quantità delle sillabe ma del loro essere atone (non
accentate) o toniche (accentate). Per cui, negli schemi metrici di
riferimento di una poesia italiana, non ha più importanza che le
sillabe siano brevi o lunghe (criterio distintivo scomparso nella
nostra lingua) ma che tali sillabe siano o meno accentate su
determinate posizioni, cosa che conferisce al verso, e quindi a tutto
il componimento, un ritmo particolare.
Il
fatto di conoscere il principio regolativo della metrica greco-latina
rispetto a quello italiano non ci dice, tuttavia, molto sulla
effettiva resa sonora della metrica quantitativa. Che tipo di valenza
fonica aveva, nella poesia antica, l’alternanza tra brevi e lunghe?
Come veniva resa con la voce l’arsi
(cioè la posizione forte su cui cade l’ictus)
rispetto alla tesi
(la posizione debole in cui non cade l’ictus)?
Oggi
noi leggiamo la poesia antica imponendo l’ictus
(che rendiamo come un accento) sull’arsi,
sulla base delle posizioni imposte dallo schema metrico e in
contrasto con gli accenti delle singole parole, considerate un flusso
di sillabe continuo; è il modo attraverso il quale cerchiamo di
ricreare (con le consuetudini e le caratteristiche della nostra
lingua) i ritmi poetici originali, non più riproducibili visto che
possiamo confidare solo su testimonianze scritte. D’altra parte è
certo che gli antichi, almeno finché ebbero della loro lingua una
percezione quantitativa, non recitavano i versi in questo modo. Come
dicevamo prima, se nell’italiano (e in genere nelle lingue romanze)
il ritmo della lingua parlata si fonda sull’alternanza di sillabe
accentate e atone, in latino e greco esso dipende dall’alternanza
di sillabe lunghe e brevi, che si oppongono per diversa durata: per
pronunciare una sillaba lunga occorre più tempo che per pronunciarne
una breve. Inoltre c’è una seconda e fondamentale differenza: la
natura stessa dell’accento. Nella nostra lingua è intensivo,
mentre nel latino e nel greco era, a quanto pare, musicale cioè
affidato a una particolare modulazione della voce. L’accento, di
qualunque natura esso sia, serve sempre a marcare l’unità
grammaticale della “parola”, conferendo preminenza a una sillaba
e subordinando ad essa tutte le altre; per questo senza accento non
esiste neppure la parola. Ora, le lingue ad accento intensivo
conferiscono rilievo alla sillaba tonica mediante un’emissione più
energica dell’aria espirata; le lingue ad accento musicale
ottengono la medesima differenziazione mediante un aumento di altezza
della tonalità vocale. Insomma, quanto stretto si fa, procedendo a
ritroso, il legame tra musica e poesia! Di queste melodie, adesso, ci
resta solo un’intuizione vaga e indefinita, un alito di vento che
serpeggia tra le parole e che nelle nostre orecchie risuona muto, a
ricordarci quanto la poesia non esista senza il suo mistero.
i
Tz. Todorov, Versificazione, in O. Ducrot & Tz. Todorov,
Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio,
Milano, ISEDI, 1972, pag. 207.
ii
A. Levavasseur, Stile e stilistica, in A. Martinet, a cura
di, La linguistica. Guida alfabetica, Milano, Rizzoli, 1972,
pag. 335.
iii
O. Brik, Ritmo e sintassi, in Tz. Todorov, a cura di, I
formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968.
Riferimenti Bibliografici essenziali:
1 - Mario Ramous, La Metrica, Garzanti, Milano, 1991.
2 - Alfonso
Traina-Giorgio Bernardi Perini, Propedeutica al latino
universitario, Bologna, Patron, 1996.
3 - Antoine Meillet,
Lineamenti di storia della lingua greca, Torino, Piccola
Biblioteca Einaudi, 2003.
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