(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 43 - Piccoli spunti di riflessione sul dialogo in poesia e le sue "apocalissi"

di Sergio Daniele Donati
In occasione dell'uscita - a partire da una domani - della terza serie di dialoghi poetici del laboratorio di Echi di Fedro (qui ogni link alle passate uscite e alle prossime), mi pare interessante dedicare questo mese la mia rubrica Lo spazio vuoto tra le lettere a qualche mio piccolo spunto di riflessione sulla centralità del dialogo in poesia e le sue apocalissi.
"Ogni parola, anche se solitaria e inascoltata, sorge come necessariamente dialogica nelle sue intenzioni", si dice secondo un antico adagio, ma la portata di tale detto deve essere a mio avviso ancora compiutamente esplorata.
Nel dire comune, infatti, dialogo è tutto ciò che comporta uno scambio di vedute su un argomento comune.
Due persone si dicono in dialogo quando l'oggetto delle loro parole e pensieri sfiora lo stesso argomento, o argomenti limitrofi e vicini.
Questo è sicuramente vero ma contiene in sé una limitazione di campo del dialogo stesso, perchè limita la convergenza di quest'ultimo solamente alla possibilità di dire dello stesso argomento.
In realtà, e facendo un piccolo passo indietro, affermazioni come quelle di cui sopra altro non sono che una patente estrinsecazione della ormai attestata preponderanza dei significanti sulle forme espressive, che si può sperimentare in tante altre espressioni di critica poetica.
Allora, forse potrebbe essere utile per tutti noi soffermarci un attimo su un punto per me nodale.
È certo che il dialogo aspira ad una convergenza di parole, ad una sorta di concentrazione della parola stessa attorno ad un nucleo comune.
E il più delle volte tale convergenza attiene ai significanti della parola stessa.
Ma è altrettanto vero che, specie in poesia, tale convergenza può emergere nel campo delle forme espressive, delle sonorità e dei ritmi, delle scelte stilistiche e/o lessicali.
Sono altrettanto in dialogo due poesie che si concentrano sullo stesso oggetto (ad. es. il silenzio, la parola, l'amore, la morte o ciò che più vi aggrada) di due poesie in cui il tema trattato è molto distante ma i richiami espressivi, linguistici e lessicali sono in stretta comunicazione reciproca.
Dialogano gli oggetti delle poesie e anche i loro stilemi e sonorità, in altre parole, giacché ogni parola è per sua natura eterodiretta e mette radice in campi diversi e tanto numerosi quanti sono coloro che la recepiscono.
Così, ad esempio, un verso altrui potrà stimolarmi a rispondere sul tema trattato ma anche, e spesso avviene, a legarmi alla forma espressiva del verso stesso, cercando di ampliarne i confini, per similitudine o per contrasto.
Molto spesso il dialogo tra poeti ha molto più in comune coi tentativi di risposta di un padre alle lallazioni incerte di suo figlio neonato che con le discettazioni filosofico-esistenziali su un dato tema.
Voglio dire che spesso la radice del dialogo è nel suono delle parole, così come un padre ripete "papà" al figlio e quest'ultimo lo imita molto prima di apprenderne il significante.
Sperimentarsi nel dialogo poetico, dunque, ha in sé quasi sempre un elemento di gioiosa attitudine infantile, una sorta di ritorno alla matrice sonora del parlare (o scrivere).
Così, e allo stesso tempo, del dialogo non si deve negare le discrasie che sono tanto importanti per comprendere come lo stesso dialogo possa creare delle empasse del tutto creative ed originali.
Come mette bene in evidenza Giulia Martini nel suo testo "L'apocalisse dialogica"¹ (Carocci edit., 2024), il Novecento ha comportato una vera e propria rivoluzione e apocalisse della struttura dialogica della poesia, mostrando a tratti vere e proprie caratteristiche della comunicazione disfunzionale, con crisi comunicative che si manifestano in conflitti, incomprensioni (parlo qui con l'autrice a livello testuale, ovviamente e non di sociologia poetica), e "risposte che non rispondono".
Un saggio di critica letteraria di primaria importanza, quello di Giulia Martini, la cui lettura consiglio vivamente a tutti coloro che del dialogo poetico, si interessano perchè è bene conoscere questa sorta di capovolgimento e corto circuito, che il novecento poetico storicizzato ha rappresentato nella struttura dialogica della poesia.
Le mie premesse di cui sopra, pur nella necessaria modestia di chi conosce e riconosce nell'altrui apporto critico ben altro peso e competenza, non vogliono essere pertanto in contrasto coi contenuti di questo mirabile saggio, ma una semplice riflessione a latere.
Ad esempio nel saggio di Giulia Martini sopra citato viene mirabilmente argomentata la persistenza di una tale apocalisse che attiene, a mio avviso, in parte a ciò che prima definivo come rapporto tra significante e significato nel dialogo poetico.
Ed è questo un fenomeno che sicuramente non si può mancare di osservare.
Così come, tuttavia, non posso non rimarcare la mia impressione che la struttura dialogica della parola poetica si sia, in un certo senso, spostata dal registro dei significanti a quello della espressione, laddove la crasi e il cortocircuito sono molto meno presenti.
La pongo come una domanda, in attesa di vostre autorevoli risposte: siamo di fronte ad un nuovo fenomeno di dialogo tra forme poetiche, più che di senso?
E, se questo fenomeno è vero, è poi così nuovo o, forse, non è nell'Antico che le radici di questo richiamo a suggestioni comuni "attorno alla forma" si manifesta?
Le apocalissi dialogiche, i corto-circuiti, ad esempio li troviamo molto spesso nei testi sacri, ed in particolare nel testo biblico. E altrettanto spesso tali salti quantici del testo sacro si trovano nei passaggi di maggiore espressività poetica.
Orbene, la risposta che in ermeneutica biblica si dà a tali salti è proprio quella dello stimolo all'interprete ad andare più a fondo nella interpretazione e ciò principalmente analizzando la struttura linguistica della frase, le figure retoriche utilizzate, le ripetizioni in apparenza inutili, perchè in esse vi è una probabile e possibile risposta.
Un esempio?
In tanti passaggi, in cui la Trascendenza chiede a Moshè (Mosè) di dare comunicazioni ai figli di Israele, il testo così recita:
«e parlò D.o a Mosè per dire:"Parla ai figli di Israele e dì loro (...) »
Cosa può significare, in questo, che in fondo è un dialogo sul dialogo, una così sovrabbondante e solo apparentemente inutile lista di richiami alla parola?
Non rappresenta un corto circuito semantico evidente?
Non sarebbe stato sufficiente un semplice. "Dì ai figli di Israele"?
Si e no, a mio avviso, e cerco di spiegarne i motivi.
Il corto circuito di questo testo, l'apocalisse di questo dialogo, la follia, se vogliamo di una tale ripetizione di lemmi dello stesso registro semantico attinente alla parola, a ben vedere, serve proprio ad alzare il livello di attenzione dell'interprete, attraverso la dissonanza di figure retoriche ridondanti che obbligano alla fermata di riflessione.
E allo stesso tempo - lo spiegherò poi - quella stessa dissonanza traccia un contorno preciso attorno all'etica della parola.
In altri termini fa ciò che fanno in ambito musicale gli intervalli di seconda e di settima, crea una una discordanza, un contrasto che non possono come effetto che focalizzare maggiormente, quasi fosse un avvertimento, l'attenzione dell'ascoltatore in quel passaggio.
Solo dopo, e grazie a questo escamotage apocalittico e di corto-circuito, entra nel lettore l'intuizione della possibilità di un significante- altro di quel testo e modus d'espressione (sì, siamo nell'ambito della musica modale e della centralità che certe dissonanze melodiche hanno in essa).
Quindi ad esempio per delineare per sommi e superficiali capi l'etica della parola contenuta in quei passaggi:
«e parlò D.o a Mosè per dire:"Parla ai figli di Israele e dì loro (...) » ci narra
- della differenza tra dire e parlare (cosa di cui perdiamo spesso memoria)
- ci avverte, con argomentum ad contrarium ( se una cosa è vera il suo contrario deve essere falso) che si può parlare per non dire o non dicendo (un monito cui la parola sacra è sempre attenta) e, allo stesso tempo, ci avverte che l'argomentum ad contrarium può essere una trappola velenosa, ben potendo esistere significanti apparentemente opposti ed entrambi veri.
- ci avverte che si può dire senza parlare ma che nel caso di quella comunicazione specifica è necessaria la parola. E su questo punto i corollari sono pesanti e importanti. Quali sono i contenuti che possono essere trasmessi solo tramite la parola? I più importanti o semplicemente quelli che necessitano della testimonianza? Il silenzio può essere comunicazione testimoniabile?
Perchè?
Il dialogo contempla sempre un elemento apocalittico e, in poesia, manifesta spesso appieno e con enorme effetto creativo la funzione di contrasto e disturbo iniziale e di elaborazione e crescita, poi, che l'altro da noi (ma anche "l'altro dal nostro" modus espressivo) ci crea.
Il dialogo in poesia è esempio e archetipo della fatica e della necessaria lentezza con cui ci si deve accingere alla bonifica e alla costruzione di un campo comune non solo a livello semantico ma anche sonoro e primariamente timbrico.
Nel dialogo, in altre parole, si esprime appieno tutta la vitalità e la vita della "parola come costrutto"² le cui fatiche non si deve mai negare.
Il dialogo in poesia non è un dato naturale e immediato (sempre che qualcosa di simile possa esistere in poesia) ma il frutto pieno di una mediazione e modifica sia del soggetto parlante che di quello ricevente².
Il dialogo poetico è sempre opera di ricerca di un equilibrio interno che non può sussistere solo nella comunanza del tema trattato.
È nella messa in comune degli elementi costitutivi della parola, dei suoi contenuti e richiami sonori che il dialogo poetico si crea e prende respiro, proprio perchè non nega mai a sé stesso la fatica della rinuncia all'idolo della onnipresenza del Sè per permettere all'altro da sè di manifestarsi.
C'è un dato di necessario ritiro in ogni dialogo poetico che è sempre un'ipotesi di creazione di una voce terza che non appartiene mai completamente ai soli dialoganti³.
E questo, va rimarcato, non è dato di natura, ma faticoso processo di riduzione senza sminuirsi.
Ecco, con questo concludo i miei piccoli spunti di riflessione sul dialogo poetico, nella speranza che i nuovi dialoghi di Echi di Fedro possano trovare una vostra attenta lettura e un plauso ai poeti che, con grande entusiasmo e potente ricerca, vi hanno partecipato.
_____
NOTE
¹ - per un breve ma intenso abstract e sunto dei contenuti di questo fondamentale testo si veda questo link alla interessante e storica pagina Le parole e le cose. Tra gli altri interessanti spunti che sia questa esto richiamo che il saggio di Giulia Martini ci presentano, è l'idea che del termine "apocalisse" quando applicata al dialogo in poesia so debba fare emergere sia l'elemento costruttivo e di rivelazione (è nel suo etimo) che quello terrifico e spaventevole (più della accezione comune del termine). Come anche qui si cerca di rimarcare l'apocalisse nel dialogo poetico, specie novecentesco, rappresenta e.manifesta un vero e proprio "disvelamento" della potenzialità della parola, attraverso una dissonanza profonda.
² - Interessante notare come proprio nella lingua ebraica per designare il lemma parola e il lemma costrutto/cosa si possa usare lo stesso termine דבר (pron davàr) manifestando così elementi fondamentali dell'attività del parlare che, benché banali a sentirsi ripetere, si tende a dimenticare troppo spesso:
- La parola è costruzione/costrutto che necessità di competenze e studio e fatica sulle sua fondamenta, non è affatto elemento naturale, immediato e involontario. Anzi è elemento di mediazione intrinsecamente. Non si nasce parlando ma si spende a farlo, mentre alla nascita il non (ancora) dicibile appare essere la normalità.
- Se la parola poetica è, in particolare costrutto, cosa che troviamo confermata dello stesso etimo di poesia (si veda ad es. sul sito di Treccani) sempre legato all'idea di un facere/fabbricare/creare, di essa non si può non indagare le finalità e le motivazioni, perché dietro ad ogni facere non può che esserci la scelta di mettere al mondo. I perché, in altre parole sono fondamentali se si cerca di comprendere il fenomeno poetico, non potendosi per esso affidarsi ad un'idea naturalistica e priva di scopi e finalità.
- Corollario del precedente assunto è che il silenzio generativo della parola - e non semplicemente " che precede la parola stessa" - altro non è che il campo di sviluppo possibile di potenzialità ancora celate per la parola ancora non detta, in fabbricazione, appena intuita. Verrebbe meno, pertanto, l'idea assai comune di una polarità, di u contrasto perenne, di una antinomia tra silenzio e parola, sottolineando, al contrario, la loro perfetta continuità e alternanza ciclica. Silenzio e parola come nutrimento reciproco, in altri termini.
Anche l'energia solare preesiste all'uomo, la sua capacità di farla convergere in centrali termiche è però facoltà solo umana.
Commenti
Posta un commento