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Sinal Fechado (Chico Buarque)

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Hai voglia a dire “smetto di credere nell'amore”. Ciò che cade a terra, lo so bene, a volte non si rialza più. Viene soffiato via dal vento, come i resti di un giornale bruciato per strada, per gioco. Ciò che cade (credi che lo ignori?) fa il rumore sordo di un cranio sull'asfalto. Uno “stump” cui non segue più alito né respiro. Ciò che cade sul freddo glaciale di uno strappo imprevisto ha il suono del...no anzi non ha suono. Un grido muto lanciato verso orecchie sorde. Hai voglia a dirmi di aiutarti a smettere di amare, amico mio. Come se non conoscessi ancora il desiderio di dire basta, di sprangare la porta dietro ogni speranza. Come se... Ma a me hanno dato ali, amico mio. Spezzate più volte dalle tempeste della vita, certo, ma ancora capaci di volo. Allora mi stendo a terra. Mi faccio cuscino morbido sotto la tua caduta. Crollami pure addosso. Spezzati pure in fratture scomposte, incrinami le vertebre nella caduta. Ma il tuo cranio non toccherà l'a

Elezione

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Terra Arata di Joan Miro (dettaglio) Ascoltando l'Andante sostenuto quasi adagio del Piano Concerto No. 1 in re maggiore op. 17  di Camille Saint-Saens  Se potessi piegarmi, Fedro, rinunciando ad ogni orgoglio, credimi, lo farei. Ma tu sei suono d'archi potenti fatti di lettere, Fedro. Io, sono invece incapace di celare significati arcani quando il tuo aratro solca le mie argille indurite dal gelo. Se potessi inchinarmi, Fedro, davanti alla superiore statura delle tue note ripetute, credimi, lo farei.  Ma tu sei intervalli di seconda, di settima, fatti di lemmi antichi come il cielo prima della separazione. Distonie.   Io invece sono pece. Pece nera, balbuziente, claudicante. Incurante di ogni valore, io vago, Fedro. Io vago ed estendo senza pudore i significati di quelle parole che tu ami gettare a terra nell'elezione di una diversa Qualità. Io raccolgo cocci, Fedro, i tuoi, su un terreno aspro, le nocche delle mani scorticate e sanguinanti. Sono incap

La casa dei sogni (ascoltando le 7 toccate di J. S. Bach eseguite da Glenn Gould)

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Disegno della piccola immensa Ruth Marie (11 anni) Hai ragione Glenn. Dovrei ricordarmelo più spesso.  Le tempeste sono sempre e solo esterne e lasciano rivoli sulla nostra pelle che, certo, invecchia.  Il vento, poi , Glenn, ci soffia sui pensieri e tardiamo sempre di qualche secondo l'istante del nostro ritorno.  Tardiamo e tradiamo l'istante, anagrammi noi stessi delle poche lettere che sappiamo mescolare.  Per questo il nostro stesso nome ci sfugge.  Eppure Glenn, tu lo sai bene, esiste sempre una possibilità di suonare uno staccato, riempiendo i silenzi tra le note delle nostre intenzioni di balzare.  Uno staccato per oltrepassare lo steccato dei nostri turbamenti.  Il mio nome è Fedro, Glenn. Il mio nome è Fedro.  E lancio sguardi dietro lo steccato dal giorno del mio primo respiro, là dove si cela la casa dei sogni. Un albero antico, un ruscello limpido dove posare le nostre fatiche.  E sono piedi nudi sul muschio morbido. E pennellate infan

Mi piace

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Mi piace  pesare la penna, prima della parola, tener sospeso lo strumento, prima degli aliti del lettore, incidere segni su un foglio bianco, prima che nel suo cuore,  Mi piace il gesto quasi pianistico dello scrivere al computer, prima di ogni significato, il corpo e la forma delle lettere, prima del loro suono.  Mi piace pensare e pesare la scrittura, come si pesa e pensa ad una pietra che, più che da scagliare lontano, sia da posare con pudico gesto, su una tomba ebraica, in simbolo eterno di trasmissione.

La geometria dell'amore

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Foto di Noelle Ozwald C'è una geometria dell'amore i cui equilibri poggiano su teoremi così sottili da sembrare abbandonati ai venti del Caso. Esiste poi un'algebra dell'abbandono le cui logiche sembrano scritte in codici indecifrabili. Eppure l'artista, quello vero, sa trasmettere nel caos apparente la Legge che lo governa, e nella Babele della parola il Silenzio che, tacendo, esprime. Quei pochi artisti che parlano la lingua che sento mia, senza saperla però pronunciare, giocano come Maestri tra luce ed ombre, tra l'orizzontalità delle nostre pulsioni e la verticalità dei nostri aneliti. E parlano al cuore, al mio cuore, in modo geometrico, ricordandomi che esiste una Via che sa muoversi con la delicatezza fragile del petalo al di sopra del mio vissuto. Di fronte alle loro opere io, inarrestabile "bavarde", menestrello senza liuto, dismetto il mio canto sgraziato. Perché dove parla la Legge, che tutto governa, non ho parola da

L'amore, dicevi...

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Foto di Noelle Ozwald L'amore, dicevi: è il goniometro  della mia anima. Traccia con precisione  assordante  linee sugli angoli  più riposti delle mie speranze; è la squadra dei miei pensieri. Disegna con minuzia  d'amanuense  e passo di danza i poligoni dei miei abissi. Io tacevo e tacevo  e tacevo, ancora; perché per me amore  è sfera, e rotola giocoso e incurante sulle tracce  di un passato silvestre, perché per me amore è un nome  senza rima, e indicibile e scava solchi  su un terreno  argilloso, e impone note diafane  ai canti miei, antichi; perché per me amore  sono ciglia e sguardi ritrosi e timidi su una terra che trema, e sotto il cielo  che abbaglia.

Ricordi?

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Foto di Noelle Ozwald Ricordi? C'è stato un tempo in cui la linea dei nostri due destini s'è piegata sulle note di un canto comune. Osserva.  Quel tempo che parve per un istante eterno traccia segni fluorescenti nella stanza azzurra.  Ascolta. È ora ch'io vada per non far più ritorno,  che la goccia di pioggia sui nostri volti ceda il passo al raggio di luna,  che il celeste dei nostri intonaci trasudi perle scarlatte da me non colte. Passo di petalo, il primo, il mio, per non fare ritorno.

Take my hand (ispirata a “Insensatez” di Antonio Carlos Jobim)

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Antonio Carlos Jobim Battono e levano, ormai nel sogno,  i balzi del cuore  un ritmo sincopato.  Peso di foglia, di piuma,  son nel muschio umido del ritiro  parole ritrose.  Irrorano semi celati  anche all'occhio del cercatore  più avido.  Eppure le mani fremono;  mani vissute, piccole,  scorticate.  Incapaci di trovare tasca,  implorano il ritorno  di ciò che mai fu  E saltella, svolazza e plana  su acque evanescenti  l'anima di chi spera. 

Il pugile (ispirata a: Gioco d'azzardo di Paolo Conte)

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Schiva, schiva, para, schiva e colpisci.  Montante basso, para, schiva, schiva ancora. E saltella, danza, cambia guardia, resta al centro del ring, attacca, danza ancora. Diretto, gancio, diretto. Alza la guardia, esci dalle corde, schiva. Colpisci ora. Colpisci...ora. E nella testa quel ritornello, piazzato sotto l'arcata sopraccigliare ormai rotta: “io parlo di me, di me che ho goduto, di me che ho amato e...” Attento, para, ora entra nella sua guardia. Uno, uno, due. Uno. Saltella. Al corpo, al corpo, senza sosta, senza pietà, toglili il fiato. “...e che ho perduto” Gancio, gancio, diretto, gancio. Non fermarti. “Adesso è tardi e dico soltanto...” Cambia guardia ancora, il sudore ti brucia nel sopracciglio. Non importa, mordi, attacca, attacca, non dargli sosta. “...che si trattava d'amore” Diretto, diretto, gancio, montante, diretto. E' a terra. ….sette, otto, nove, dieci “...e non sai quanto”

Lo chiamano cambiamento

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Lo chiamano cambiamento. E fanno bene.  Perché è la parte inferiore del viso a manifestarne per prima la presenza.  Lo chiamano cambiamento e fanno male.  Perché, a furia di chiamarlo, viene nascosto dalle nostre aspettative. Il cambiamento che invochiamo quando non ci stiamo più dentro è fumo negli occhi.  E quello vero, invece, è una preparazione lenta del terreno.  Sono sguardi fissi sul futuro, mani scorticate, nocche dissanguate cercando gemme tra le dure pietre del terreno. E pianti. E silenzi e silenzi ancora. Il cambiamento sono notti insonni passate a pregare un Dio che si cela perché ci dia la forza di poterci definire ancora uomini.  E urla e grida dall'angolo in cui ci troviamo richiusi, perché ci mostri una via d'uscita. E poi un giorno, senza nemmeno rendertene conto, ne sei fuori.  E scendi al bar, e ordini un cappuccio. E la barista ti guarda e ti dice: cos'hai oggi? Sei diverso. E tu la guardi e non sai che dire. Perché dentro ti senti lo s

Mon dernier rayon de soleil ( 7.3.1996 )

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7 marzo 1966 nasce Francesca Nel 1982 io ero un giovane timido, sognatore, come solo un sedicenne fatto col mio stampino può essere. Non amavo giocare a calcio ma guardavo le stelle. E le stelle mi parlavano. Francesca era una creatura solare, gli occhi ridenti e, no, per nulla fuggitivi.  Quando si fissavano nei miei venivo attraversato da onde di emozioni che, se chiudo gli occhi, il mio corpo ancora rimembra. Io avevo lo sguardo sempre posato sull'orizzonte, forse un po' malinconico, ma pieno di speranze per il futuro. E, quando il mio sguardo incrociava quello di Francesca, ne sono certo, lei sentiva un canto antico nelle sue orecchie.  Mi chiamava, un poco per sfottermi con tenera dolcezza, il guerriero delle stelle .  Io ridevo e ridevo e ridevo. Poi tacevo e la guardavo ancora negli occhi. La chiamavo, senza mai dirglielo, brezza marina . Ci tenevamo per mano come solo due sedicenni possono tenersi. Senza parlare. Che altro avremmo potuto dire? Che nome che no

L'incontro

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La passeggiata di Marc Chagall (particolare) No, non credere che io non sappia  che i nostri sguardi furono preparati  dai venti del tempo e dello stupore.  E non pensare che io non possa  legare al Silenzio eterno delle stelle  la gioia dei nostri non detti.  Gioco di bambini, serio,  abbasso lo sguardo al passaggio angelico  del soffio che lega,  E mi copro il volto, pudico.  Perché scarlatta è la traccia nei cieli  e blu, come il mare, la sua evanescenza.  No, non credere che io non sappia  che è meglio che tutto taccia  e si lasci cullare da un pulsare antico  che, messaggero, ci guida  là dove risiede sereno  il battito lieve d'ali di farfalla 

Dormi?

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Marc Chagall -Bacio (particolare) Un uomo tiene  una donna  tra le braccia.  L'ama. Le chiede  in un bisbiglio, all'orecchio: ”Dormi?”  E spera,  che non risponda, e possa infine vedere  i suoi volti  protetti dal Sogno,  dal loro sogno.  Un uomo ricorda,  legandosi alle  dolcezze dell'attimo,  sapendo che è memoria  e dimentica l'amarezza e lo strappo.  Un uomo volta  lo sguardo al cielo,  poi a terra.  Lì, nel mezzo,  tutta la poesia  del suo dolore.

Il maestrino

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C'era qualcosa di calloso e duro nella sua mano,  cui la souplesse del mio passo non seppe mai supplire. Qualcosa di tenace e duro nella sua voce, qualcosa di non invocato, che le mie schivate giovanili mal seppero evitare. Eppure, quando infine mi disse di smettere di parare i colpi della sua spada e di cominciare la danza del fiore, i suoi occhi erano cieli stellati,  la sua voce il soffio che crea e le sue mani, sí le sue mani, strumenti di chirurgica bellezza.  E fu perché seppi assitere a questa trasformazione  che potei dirmi allievo, e mai Maestro.  Mi chiamò però da allora petit maitre, maestrino.  I miei occhi non furono stelle ma lune,  la mia voce un dolce soffio sulle candeline di ricordi d'infanzia, e le mie mani, già le mie mani, divennero allora mani di padre. 

Panim (volti)

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Temo di averli visti tutti, Fedro, i volti di cera rossa che celano al mondo, che pur ti brama, il ghigno che ti muove. Né mi spaura più il tuono del tuo nascondimento tra le foreste fitte del mio pensiero. Non sei più là e io sono altrove, dove dolce dondola l'assenza mia di speranza, infine raggiunta.

Glenn

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J. S. Bach Variazioni Goldberg BWV 988 Variatio 15 Canone Alla Quinta ( esec. Glenn Gould ) Li lasciamo cadere di tasca, Glenn, i soffi, come note sperse, come lettere sfuse. E più il ritmo si fa lento, più diviene lieve l'appoggio sospeso. Come fiocco di neve, cade calando su un pensiero antico, senza far rumore, il Silenzio che crea. Ci chiniamo ancora e ancora per il peso di una piuma, Glenn. Perché sappiamo quanta intenzione sia necessaria per sostenere una leggerezza arcana. E increato è ancora il velo che possa coprire i miei volti quando il mio sguardo si sperde dietro le nenie antiche che mi diedero vita. E irroro territori inesplorati di lacrime di speranza. E il canto tuo è sottile, come il lino che danza al passo di donna che fu. La lama che ricomposi nelle notti stellate del mio desiderio irriso riposa in un fodero di fili d'argento. E il respiro, Glenn, il respiro che allora persi, agita ora le foglie della quercia sotto la quale ricevetti la mia stessa

Il piumone a puntini di Massimo Manduchi

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Pubblicato su concessione di Massimo Manduchi Era una sera di dicembre.  Una di quelle che precedono il Natale, ma già piene di quell'atmosfera che qualcuno ama tanto e che, invece, qualcun altro detesta più di ogni altra cosa. Suonò il campanello di casa.  Era sua moglie con il pacco più grande che lui avesse mai visto. Non era un regalo di Natale, però. Per lei era molto di più di qualsiasi regalo di Natale avesse mai ricevuto. Addirittura più del centrotavola raffigurante due cervi innamorati che sul tavolo del suo salone è in bella mostra da ormai quasi trent'anni. Era il piumone per il letto matrimoniale che era riuscita a ricevere in regalo grazie alla raccolta punti della Conad, grazie al fatto che per più di un anno la sua famiglia si fosse nutrita esclusivamente di prodotti acquistati in quella catena di supermercati e grazie ad un piccolo contributo spese di circa duecento euro. Duecento euro? Lui strabuzzò gli occhi tanto che una pupilla gli cadde i

Tramonto

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Sottili come il filo di lino le mie intuizioni attendono sospese l'éclat du monde per trovare un segno che le possa contenere.

Surreale 2

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Foto di Brassaï Io la vidi una volta, l'anima di donna in rivolta, il volto che si volta, verso un'ipotesi di futuro, e poi tornare alla calma  ormai da quell'intuizione stravolta. E nel sonno di piombo, ogni notte,  invoco le mie più nascoste alleate, lettere antiche e pianti di daino, perché la mia anima dall'oblio di quel ricordo  venga avvolta

Io so che tu sai

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Immagine di Mariana Kalavacheva Io so che tu sai. Per questo abbasso lo sguardo verso una terra che  possa accogliere il mio segreto. E, anche se fingi  indifferenza,  io so  che quel segreto  è per te un dolce tesoro. E il gioco tra i nostri silenzi è forse il più antico,  dolce e divinamente umano che si possa concepire.

Sull'adagio per archi di Samuel Barber (op. 11)

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Foto di George Christakis Io, piccolo uomo,  che da quel nostro sogno comune ho ricavato sopravvivenza e alberi e muschi  e mani carezzevoli immaginate sul tuo viso,  ti dico che so, amore mio.  So che tu vai, lontano,  dove i tuoi passi lenti ti conducono.  E so che non c'è spazio, statua di sale,  per il rimpianto nella tua scelta.  E so che il silenzio che ora mi chiedi è una cerniera sigillata con cera lacca, rossa.  Mi volto allora io, che posso,  verso il mio passato di cherubino, ormai senz'ali.  E invoco, col tono rauco di un flauto spezzato,  un gelo eterno sul mio cuore.  Ma resta accesa in me la fiamma che tutto scioglie.  E io, piccolo uomo, la maledico.  Perché il suo fumo sale lento e storto  perdendosi nelle brume dell'evanescenza.  E non c'è spazio, né tempo, né segno che possa coprire il mare placido della mia nostalgia. 

Potresti appoggiare di Cristina Simoncini

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Foto di Man Ray Pubblicato su concessione di Cristina Simoncini Potresti appoggiare una mano sulla mia testa, contenere l’idea impazzita, il fiotto di rabbia, e lasciare il tuo tempo un momento con me, nel buio improvviso che avanza?

Per una vite di uva fragola di Maristella Tagliaferro

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Per una vite di uva fragola di Maristella Tagliaferro E’ il sangue della Terra che succhiamo dai tuoi lombi, profuma di fragola, odora di mela. Turgidi al tatto sono i piccoli capezzoli rossi. Ho voglia di tornare là tra le vigne Corvine e la Rondinella color rubino. Catullo ne canta il gusto di lamponi e d’amarena, a gran voce reclama il Vino più amaro e più buono. E’ fra le fronde bionde di Folle Blanche che distillate ci donano l’oro ambrato di Cognac, odoroso d’antiche querce, che accolsi la coppa dell’Amore e le sue parole segrete. Ma è da Cipro, dall’isola spumeggiante di luce e profonda di mistero che mi giungono aromi accecanti, dolci di miele, aspri e acerbi di limone. Mi parlano dell’Oriente, dei profumi d’incenso, dei tessuti morbidi al tatto, delle spezie dell’Asia lontana. Di un tramonto infuocato lungo il padre Nilo e dei ritmi dell’Africa nera. Mevlana compone un Sema viaggiando t

Aria che entra

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E l'aria che entra, e quella che esce, e il cielo stellato, e "la luce bianca,  papà, bianca", e star soli, connessi alla sorgente, per un po'.

Azzurre attese - Il segno nella pratica

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Dedicata a mio figlio,  il cui nome mi accompagna dal mattino, al risveglio, fino all'entrata fatata, la sera, nel mondo del sogno. Dedicata, al "maestro bambino" del mio ultimo seminario, e al suo saggio passo delicato nel mondo più sottile che io conosca. Quello della trasformazione. Dedicato alla "bimba madre" che difendo da se stessa e dal mostro che la minaccia. Che i suoi occhi velati di lacrime possano finalmente sorridere ad un cielo stellato.   Dedicata al bimbo che fui e che ancora respira dentro di me. Che possa per sempre trovare pace, sogno e sorriso nel mio stesso abbraccio.  Quattro infanzie, quattro incontri, che hanno fatto che io non fossi più lo stesso di prima. ______________ Viola, come la striatura del cielo prima della notte, figli del mondo, sono le pergamene dell'odio. Imparerete, leggendone i freddi venti, a rifiutarne il fascino e a trasformarne il segno. Rosse, come melograno aperto, figli del vento, sono le pergamene dell'amo