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Ricorda (sempre Oblivion)

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  scrittura esile/scrittura esule Ricorda, o almeno lascia che io ricordi. C'è stato un tempo in cui i nostri sguardi si incrociavano; e poi fuggivano ritrosi a terra. Ed era la medesima terra ad accogliere le nostre timidezze.  Una terra fertile, allora. Là, a terra, ci scambiavamo un canto e le mani non osavano ancora sfiorarsi. Erano i tempi di noi bambini e timidi (elettivi dicevi), di un noi ancora bambino e timido, ma eravamo ancora aperti a tutte le parole da venire. Ed erano parole che, forse, non abbiamo mai detto, ma per certo entrambi abbiamo immaginato, milioni di volte. Gli occhi chiusi, lo sai, abbiamo pensato miliardi di volte quelle parole compiere voli sulle nostre pelli e tramutare il nostro epitelio in tessitura d'amore. Che al potere della parola, lo sai bene, abbiamo sempre creduto entrambi, con tutte le nostre fibre. Ed è inutile fingere tra noi; ci crediamo ancora. Ricorda, o almeno lasciami ricordare, la dolcezza del primo bacio, la timidezza della tua v

Scrivere

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  Foto di Gabriel Donati Appoggio piano, punta sospesa, vuoto gravido. Cruna che accoglie fili cremisi e tesse tele e serra i ranghi di stelle distanti. Urlo di naufrago "terra, terra" e fuochi e sabbie e volti stretti segnati dai flutti del mare del silenzio.

Dalet

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  Johann Sebastian Bach  -   Piano Partita No. 2 In C Minor, BWV 826    (Esec. Martha Argerich ) Davanti a quella porta io mi chino. La scrittura si fa piccola, sempre più piccola; essenziale. Mi dicevi poeta da piccolo. Io, sognante, componevo frasi con le quattro parole che possedevo. “Il cielo, il mare e mamma e papà”, ricordi? Poi mescolai elementi e materie e tu mi dicesti scrittore. Fu un necessario strappo a costringere l'abbondanza dei simboli, ali di rondine per le mie intuizioni, in cassetti inaccessibili, anche a me. Anche a me. Rimanemmo in tre; e ora lentamente svanisci anche tu. Con passo fragile, insicuro, delicato e discreto svanisci. Ti fai piccola ai miei occhi che si chiudono per non vedere. E, mentre a stento varco quella porta, lenta appare in cielo, come scritta di fuoco grigio, la domanda: “Chi mai sosterrà le mie lettere ora, mamma? Chi mai?”.

La scrittura di un bambino

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Solleva la mano il figlio del soffio. Del duro mondo colora la scorza, ricompone lo scheletro, riattiva il cuore, perdendosi tra colline e pianure del suo primo stentato tratto. E si gonfia lo spazio, e si piega il tempo per quella mano incerta benedetta dalle stelle, carezzata dal vento, coperta dal velo sublime dell'eterno rinnovarsi delle stagioni delle parole.

Oggi descrivo

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Oggi non scrivo. De-scrivo Stasera il pub, come tutti i sabati sera, è colmo di umanità.  Mi ci sono ritrovato, solo, per un imprevisto bidone di un amico. E ho osservato per due lunghe ore la vita manifestarsi. Ho deciso di non scrivere ma di descrivere. E c'era la tavolata di ragazze con un unico amico gay. Indovinate chi fra loro mi guardava mentre io li osservavo. No, oggi non scrivo su quel tavolo, sennò ne viene fuori la Recherche due. E c'era la cameriera stanca che nel prendermi l'ordine mi diceva: "Sergio non ce la faccio più" . Ed io, che oggi descrivo e non scrivo, ho dovuto tagliarmi la mano per non costruire un romanzo su quella piccola frase. E c'era il macho, capelli raccolti con un piccolo chignon alla samurai giapponese, che però non beveva Sakè, ma lemonsoda. E via, taglio l'altra mano per non scrivere un romanzo sul nostro bisogno di apparire ciò che non siamo. E c'era la gnocca dell'est che mi gua

Strange fruit

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Scrivere racconti accompagnandosi a degli standard jazz è un'impresa titanica. Uno sforzo disumano che ti strappa gli occhi dalle orbite. Bisogna saper armonizzare le parole con la musica, diminuire di mezzo tono, almeno, il suono dello scritto, perché non si sovrapponga al testo del brano, aggiungere i contenuti del racconto poco alla volta perché seguano vie sottili e non rompano l'armonia musicale ma la rafforzino. Tessiture da alchimisti, da chi si diletta a immaginare che battere sulla tastiera del computer sia come suonare il pianoforte. Viola questo lo sapeva bene. Ne aveva già scritti più di trenta. Si accese una sigaretta. Fumare affacciati alla finestra, nell'afa notturna di un luglio milanese ti porta veloce verso atmosfere jazz. “Forse ho sbagliato”, pensò, “dovrei chiamarlo”. Chiuse immediatamente gli occhi. Lo faceva sempre quando voleva scacciare una sensazione sgradevole. Spense la sigaretta mentre la Simone lasciava cadere lenta come un foglia mo

L'incipit dei miei incipit

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Quando avevo circa vent'anni andai da solo in una birreria vicino a casa, armato di penna e taccuino.  Era tanto figo a quell'epoca concentrarsi su una traccia, su un'idea. Solitario, ma nel brusio del locale affollato, provavo a scrivere. Di colpo sentii una mano sulla mia spalla.  Era un vecchio dai capelli bianchi, camicia azzurra, baffi anni 70, lievemente all'ingiù.  Mi guardava dritto negli occhi, con un bicchiere in mano. Ricordo che non ebbi paura.  Anzi, era come se lo conoscessi da sempre. I miei occhi giovani e inesperti nei suoi, blu come il mare, vissuti e sornioni. "Anche tu scrivi per sopravvivenza, vero ragazzo?", mi chiese.  Non seppi cosa rispondere, ma sorrisi. Lui si fece più serio.  "Conosci Blackbird dei Beatles?", mi chiese. "Si". Risposi. "Ascoltala bene prima di scrivere di nuovo, sopravvivrai meglio", mi disse e se ne andò. Oggi, mentre scrivo, siedo in una birreria da sol; osservo la gente intorno a