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"Genealogie verbali" - un saggio di Giansalvo Pio Fortunato

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Definire la poesia un’arte abissale è quanto di più comune, ma anche quanto di più incompreso la storia della letteratura e dell’esperienza poetica ci abbiano consegnato. Una simile prominenza teoretica, infatti, pare assai spesso porre i poeti dinanzi ad un “aut aut” , che si scandisce nel constatare e capire la propria pochezza o, parallelamente, nell'arrivare all'esaltazione del proprio fenomeno poetico. È indubbio, infatti, che, soprattutto ai giorni nostri, l'idea di un costrutto misterico ed il fascino del “nero” (nel senso sinestetico del termine) rendano la seconda opportunità molto più appetibile. Eppure questa figurativa dell’abisso vuole fugare ogni forma manieristica ed ogni obiettivo esoterico. L’appunto, che qui emerge prepotente, è di tutt’altra direzione e pare piuttosto abbattere le barriere elitarie e trionfalistiche della poesia. Prima, però, di ultimare questo percorso e giungere all’aut aut, sopra citato, bisogna soffermarsi anzitutto su una domanda nev

(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 27 - Qualche riflessione sulla parola

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  A cura di Sergio Daniele Donati L'anno nuovo è appena cominciato - come un neonato lancia i suoi primi vagiti - e mi ritrovo in mano riflessioni che datano qualche decennio.  La parola che riflette sulla parola stessa  in fondo è il più antico e folle dei paradossi, ciò che ci dice, senza mezzi termini, che dal logos non siamo strutturati per uscire, se si escludono alcune esperienze contemplative estreme, e il pensiero si struttura attorno al linguaggio.  Pensando parliamo e parlando arricchiamo il nostro vocabolario cognitivo e cogitante.  La parola struttura il pensiero - e non il contrario ( 1 )  - e il campo su cui ci muoviamo e, molto più spesso, inciampiamo come poeti e amanti della parola, va esplorato con la cautela del cercatore di tracce, nei boschi. Un bosco pieno di insidie che cozzano inesorabilmente con frasi da noi apprese e ripetute, come slogan.  Le ascolto spesso proclamate  a macchinetta anche dalle menti che io considero più fini, quasi a voler trovare consol

(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 23 - "Guardiani delle parole": appunti sparsi sull'Etica della Parola - parte seconda

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A cura di Sergio Daniele Donati Nella prima parte di questi appunti sparsi dedicati all'etica della parola (lo trovate nell'articolo apparso su Le parole di Fedro il 1.8.23 -  link ) abbiamo sfiorato il tema, a me molto caro, del nostro posizionamento nei confronti di qualcosa che in fondo non è mai perfettamente definibile nel suo esatto perimetro. Esiste, dicevamo, la necessità di cura dell'oggetto "parola",  di scegliere, in altre parole, una postura attenta dal guardiano, e custode.  Se ogni parola è elemento ed alimento creativo, e non solo descrittivo, non possiamo che osservarne le potenzialità a lungo, prima di pronunciarla o scriverla. Questo perché ogni nostro dire in fondo - ma anche in superficie - è un passaggio stretto, un lento passo sul crinale che ha confine con due abissi; quello dell'incomunicabilità totale e quello di un silenzio che atterrisce.  Per questo motivo bisognerebbe abituarsi, quando di parola trattiamo, a evitare, se non necessa

Stanze della parola contratta

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Stento a dire mio quel tratto di penna. M'appartiene il polso -  e anche il fiato. Ma quel lemma scomposto - quel taglio beffardo sull'albume del foglio - che tacita ogni mio dire canta con voci straniere ai miei midolli semiti. Poi, lo sai,  finiamo coll'ospitare nelle rughe delle mani parole altrui - malsane - per non dirci capaci del volo che c'appartiene. Finiamo coll'opporre un silenzio di palude al sacro che abita le nostre pure intenzioni, perché incapaci d'una risata che sgretoli lo stigma sulla nostra pelle bambina. E ci incantano la notte voci sublimi di sonno - che il sogno poi nega - e la loro lettura  al mattino confonde; perché sotto all'omero candido del nostro oblio si nasconde un verso sovrano, una "voce di tenebra azzurra" ¹, un sospiro silvano, un tatuaggio sull'ebano d'un guerriero africano. Tu chiedi il gesto io oppongo il suono; non resta che un passaggio  stretto - alla parola - per divenire besciamella di significato