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Al Maestro - Trittico

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1 Ci scava gli occhi - e ne risucchia la luce - percorrere come talpa, sottoterra, gli umidi territori della nostra falsa coscienza. Abbiamo bisogno dell'abbaglio - d'una intuizione puerile - per dirci degni della falsa imago  che abbiamo  della cecità d'Omero. 2 Del Ciclope ci meraviglia l'ottuso passo, l'incapacità di trovar senso nel gioco che la Parola fa con le intenzioni del Rapsodo . La cecità del figlio del dio del mare  non è figlia del gesto di Odisseo , ma di una assenza originaria - ci vogliono due occhi per raccogliere  sotto al limo della forma la gemma preziosa dell'ironia. 3 Eppure continuo ad arrendermi al canto delle sirene  e non mi lego a nessun albero, Maestro, dal giorno in cui la tua voce è tornata al Silenzio che l'ha generata.  Tutte le foto sono di Sergio Daniele Donati e sono state scattate  al Museo Archeologico di Atene

Nella penombra

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Per paura dello sciopero e di far tardi, sono arrivato tre quarti d'ora in anticipo nel luogo dove tengo i miei corsi di meditazione.  Tutto è silenzio e buio. Non mi va di accendere le luci, non ancora. Chiudo gli occhi e, per un istante, cerco di fare entrare il silenzio e la penombra nelle ultime tracce di questa mia caotica giornata.  Un senso tutto questo affanno lo avrà?  Un senso, magari sottile, delicato, sfuggente, deve averlo questo mio desiderio di non lasciar morire la voce del mio maestro, di passare ad altri il testimone che fu passato a me.  E ho bisogno di Silenzio anche solo per porre la domanda a me stesso, per non permettere al bimbo piccolino e pigro che mi abita di accontentarsi di risposte preconfezionate e stantie. Perché insegno? Che cosa insegno ogni giovedì e nei miei seminari? Quali voci mi abitano quando parlo ai miei allievi? Quali semi cerco di seminare nel loro più che fertile terreno?  Oh sì, potrei dirvi del piacere del pass

Il maestrino

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C'era qualcosa di calloso e duro nella sua mano,  cui la souplesse del mio passo non seppe mai supplire. Qualcosa di tenace e duro nella sua voce, qualcosa di non invocato, che le mie schivate giovanili mal seppero evitare. Eppure, quando infine mi disse di smettere di parare i colpi della sua spada e di cominciare la danza del fiore, i suoi occhi erano cieli stellati,  la sua voce il soffio che crea e le sue mani, sí le sue mani, strumenti di chirurgica bellezza.  E fu perché seppi assitere a questa trasformazione  che potei dirmi allievo, e mai Maestro.  Mi chiamò però da allora petit maitre, maestrino.  I miei occhi non furono stelle ma lune,  la mia voce un dolce soffio sulle candeline di ricordi d'infanzia, e le mie mani, già le mie mani, divennero allora mani di padre.