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Lo si fa vicino (Oblivion)

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L'autore da piccolo Ci vuol grande maestria, ora lo sai, a trasformare in passo di tango il desiderio di fuga, a giocar all'elastico con sogni e rifiuti. Ignoravi allora che più lontano lanci il tuo sassolino più veloce sarà il suo – il tuo?- viaggio nell'abisso. Se fossi stata anche tu bambina lo sapresti: il primo rimbalzo dev'essere vicino a riva , perché si trasformi in ricochet argentati. M'hai lanciato troppo lontano per vedere il mio dorso delfino farsi lucido e umido; per questo ci allaccia ora la sola fantasia d'una musica che torna sui suoi passi con volo delicato. In mezzo al lago però galleggia un fiore di loto e, anche se non le vedi, lo sai, le sue radici si nutrono di limo. Assieme alla carpa baffuta ridono d'un uomo gettato troppo lontano per rimbalzare all'infinito su riflessi di ricordo.  

Tango in terzine (un 4/4 mascherato - Oblivion)

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" Evanescenza" - foto di Sergio Daniele Donati Alzo piano il velo perché le aderenze non strappino tessuti appena cicatrizzati; odorano di muschio e ginepro le tracce ancora biancastre del tuo passaggio, sulla mia pelle; sapeva invece d'eucalipto lo sguardo felino, il tuo, e quel batter di ciglia. Da buon ebreo mi dondolo, sai, quando il ricordo si fa battente  e la memoria ripercorre un intrecciarsi di gambe, un mescolio di fiati - appannavano i vetri d'una stanza, troppo stretta per contener quel grido -. Mi dondolo e spero che la nenia plachi la furia  del nostro mancato ascolto. Da buon ebreo resto a guardia d'un imperativo sovrano che tacita la rivolta  e mi spezza e rende umile il mio humus - funghi gialli su terreno umido -. È stato ciò che è stato e dentro ognuno di noi una voce distinta canta lo stesso canto - in lingue lontane - e chiude palpebre senza peso. La senti lì, ancora viva, trasformata in ricordo quell' antiqua fabula ?  Due solitudini s

Conosco il Tango (Oblivion)

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"Infanzie" di Sergio Daniele Donati Conosco il tango, ma non lo ballo, da sempre mi abita una regola - non so da chi imposta - che m'impedisce di star al centro delle altrui praterie. Osservo di lato passi stranieri sulla sabbia della mia evanescenza, questo sì; danze che parlano una lingua che non m'appartiene e fa vibrare le mie scintille. Mi sono riavvicinato poi ai miei alfabeti bislacchi quando la chiamata s'è fatta troppo insistente per essere ignorata. Io da sempre vado lontano, fuggo, e cerco sottoterra un'infanzia mai vissuta. Là tra lombrichi e gemme ho imparato a scavare a mani nude, troppo tardi per essere bambino troppo presto per esser uomo. Per questo fuggo; ciò che manca al cominciamento canta per sempre l'inno dell'assenza e separa e divide e riempie di liquidi collosi le vibrisse d'un uomo-gatto innamorato della luna. Ma forse uso simboli strani per le tue orecchie di cristallo, troppo fragili per sopportare il suono d'una v

Nascite (Oblivion)

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La nascita di un figlio - d'un libro, d'uno sguardo - non è mai casuale. Segue intrecci decisi ben prima del nostro primo respiro. La vita, lo sai, trova origine nella terra. Fango e aliti divini, questo siamo. E il nome che diamo al nostro Dio - che contenga la dolce desinenza EL o sia la brugola dei nostri motori - ha sempre la leggerezza d'una foglia. È sempre l'Altrove a indicarci la matassa e l'Antico a guidare le nostre pazienti dita - ci sono nodi indistricabili ma poco importa; pesa invece l'attitudine testarda e contadina a sollevare zolle - "Come nacque il nostro amore?" mi chiedi. E sai bene che sarei più abile a parlar della sua fine - è questo che faccio nei miei versi zoppi -; tu sei altrove e mi indichi la matassa dell'origine e mi obblighi a un passo indietro - guardando avanti - Un passo di tango sobrio, senza acrobazia né espressione, o intreccio di gambe. Io non so come, so che nacque quando l'ultima stella - alcuni la chiama

Maschere (Oblivion)

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  Foto di Man Ray Indossiamo maschere - ormai non è un segreto - e ci innamora d'un volto l'espressione mai presa più che la smorfia del desiderio. Tu questo lo sapevi e conoscevi la mia fascinazione per i suoni nascosti. Per questo indossavi costumi a me sgraditi; mi ricordarvi di guardare in quell'oltre-mondo che era la tua presenza. Chiedevi d'essere compresa, bimba ferita, dietro ai tuoi trucchi di prestidigitazione. Sbagliavi; era evanescente ciò che cercavi di celare - un fumo bianco - non la tua maschera; e ciò che nascondevi portava gli stessi profumi delle mie più pericolose assenze. Fu allora - una coscienza bambina che urlava forte la sua esistenza - che decisi d'opporre alle tue maschere la parola che scardina. Fu un bimbo mai amato a dirti “ti amo” ; e un adulto triste e troppo cosciente della fine delle cose - prima del loro inizio - ad abbassare lo sguardo a terra quando mi negasti - non la possibilità d'esser corrisposto; è questo il gioco perico

The reason why (Oblivion)

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"Danza" di Sergio Daniele Donati Lo sai, non è il nome di questa musica, il suo richiamo al ricordo o al valore dell'oblio, a farmi scrivere di noi.  È quella nota iniziale, tenuta, una traccia siderale  verso un infinito di frammenti, a togliermi dal balsamo del silenzio e spostare la mia attenzione sulla colla delle parole.  È stato un éclat , hai ragione, e forse non ha senso questo mio agitar lemmi in movimenti sensuali, a spirale. Dovrei tessere veli, o tirare alte le vele  sull'albero maestro, e parlare del futuro che già colora d'alba i cieli di un uomo placato.  È stato ciò che è stato e forse ogni parola aggiunge solo briciole di comprensione  a ciò che nacque  per portar significato al mondo, e si spense poi nel buio cieco dei miei occhi. Ma poi c'è quella nota e a lei ritorno, con passo zoppo e occhio presbite. Se scoppia una stella in cielo, mi dico,  nascono comete e sistemi solari. E non sono cocci; è la vita che pulsa dietro la descrizione di un

Ricorda (sempre Oblivion)

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  scrittura esile/scrittura esule Ricorda, o almeno lascia che io ricordi. C'è stato un tempo in cui i nostri sguardi si incrociavano; e poi fuggivano ritrosi a terra. Ed era la medesima terra ad accogliere le nostre timidezze.  Una terra fertile, allora. Là, a terra, ci scambiavamo un canto e le mani non osavano ancora sfiorarsi. Erano i tempi di noi bambini e timidi (elettivi dicevi), di un noi ancora bambino e timido, ma eravamo ancora aperti a tutte le parole da venire. Ed erano parole che, forse, non abbiamo mai detto, ma per certo entrambi abbiamo immaginato, milioni di volte. Gli occhi chiusi, lo sai, abbiamo pensato miliardi di volte quelle parole compiere voli sulle nostre pelli e tramutare il nostro epitelio in tessitura d'amore. Che al potere della parola, lo sai bene, abbiamo sempre creduto entrambi, con tutte le nostre fibre. Ed è inutile fingere tra noi; ci crediamo ancora. Ricorda, o almeno lasciami ricordare, la dolcezza del primo bacio, la timidezza della tua v

Che poi (ancora Oblivion)

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  Che poi, se non avesse steso i suoi balsami, - mirti e cedri e oli di palma - sui suoni metallici dell'assenza, se non avesse coperto di veli sacri e lievi la pesantezza d'un corpo che langue sotto il ritmo tribale e barbaro dell'abbandono, se non si fosse coricata al mio fianco e cantato le antiche nenie  del mio popolo, mi si sarebbero spezzate  le ossa, frantumati i midolli, straziata la pelle e il cuore  avrebbe deciso d'entrare sottomesso  nel reame del silenzio. Un lemma antico ha salvato un uomo indegno del suo passo regale, gli ha sollevato lo sguardo e ha trasformato in parole il bollore e le febbri  del suo sangue.  La parola che salva e lenisce, eleva e rende sacro il fango d'ogni esistenza. La parola che canta  inni di speranza nei lobi d'un uomo ignaro del suo nome.

L'attesa (Oblivion 4)

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"L'attesa" di Francesca Rocco - primavera 2021 Non dirlo e lascia che sia pizzicato su fili d'argento da una parola muta; non dirlo e lascia che cresca - sibilo antico - come raggio di stella su legni di cedro. Posa lo sguardo altrove e lascia che coli dal palmo delle mie mani la goccia d'olio sacro d'un desiderio non detto.

Passi solitari (Oblivion 2)

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Passi su terreni intimi, nostro vuoto comune; e luci di natale nei tuoi occhi color nebbia milanese. E mani sui fianchi e silenzi densi e suoni lontani, di fisarmonica. Io non so danzare; lo fanno per me lettere e segni. Tu ti muovi come dea e posi i tuoi silenzi sul mio sguardo bambino. E dimentica un istante solo chi sono; si imprima nella tua mente chi ho cercato di essere per te quando non potevo essere con te, quando strisciavo solo passi d'arte marziale su spiagge solitarie. Non fosti tu a spezzare la mia spada da samurai stanco. Fu un raggio di sole arrivato troppo presto su una corazza impreparata ai colpi dell'amore. Allora, su quelle spiagge, mi inventai le danze a noi interdette e il mare, lì vicino, rideva, come te, incapace di perdono.

E ora tango (Oblivion) – La danza dell'Amore

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Ti tengo lontana, che sai di mare. Ti tengo vicina, che sai di ginepro. E quella nota tenuta, sensuale, è un urlo, bambino, acuto. Un dondolarsi lento, sopracciglia alzate occhi umidi, ti tengo lontana che sai di calce, vicina che sai di ribes Ti tengo lontana che sai di cielo. Ti tengo vicina che sai di mamma. E torni e vai e torni, ancora. Onde. Ti tengo lontana, ti tengo vicina. E sogni e sogni E ancora pieghe, pieghe. Ti tengo lontana e vicina. E schiaffi e addii e ti tengo vicina e lontana, ancora. E torni e vai. E muovo il piede su asfalti bagnati su arie buone d'oblio. E vai e torni E ti tengo vicina e lontana e vibra lento e pulsa il ventre e vai e torni e ti tengo vicina e lontana. Che sai di mare e di ginepro di mamma e d'oblio